Giovanni Viola è stato un gran portiere e il quinto di sempre come presenze a difendere la porta bianconera, duecentoquarantaquattro gare, alle spalle di Buffon, Zoff, Tacconi e Combi. Il suo quoziente reti a partita (1,16) è sensibilmente più elevato di quello di Zoff e Buffon, che incassano mediamente tre reti ogni quattro gare, ma è un numero di scarso interesse: in tempi ben precedenti alle statistiche di IFFHS, critici attendibili e attenti alle cose bianconere, uno su tutti, Caminiti, sostengono che Viola sia stato uno dei migliori di sempre nel ruolo. A giustificare quel numerino che ci recita di come il nostro abbia incassato mediamente più di un gol a partita, c’è da dire che all’inizio della sua carriera bianconera, c’era molta più attenzione alla fase offensiva, mentre, nel periodo centrale, giocava in una squadra che attraversava un periodo di appannamento, culminato nei due consecutivi noni posti, della Juventus dei “puppanti”.
Viola è “strano” per quei tempi: mai si era visto un tipo tutto ammodo, educato, misurato e signorile che giocava in porta. Giovanni era veramente dissonante con la visione usuale dei portieri del tempo, che se non erano matti davvero, lo davano a vedere con impegno. A forza di brillantina, restava pettinato per tutta la gara, anche la più accesa: d’aspetto, avrebbe potuto fare l’attore. Sobrio nello stile tra i pali, non disdegnava i voli spettacolari. Come quella volta, agli inizi in bianconero, quando in una parata regalò molto alla platea, togliendo alla praticità. Il grande Combi, che lo allenava, subito dopo la gara gli disse:
“Senti, hai incantato il pubblico, non me. La prossima volta, quella palla la prendi stando in piedi!”. Talvolta spericolato tra i pali, ma timido nella vita, come lui stesso racconta della sua della prima volta che si reca negli spogliatoi come nuovo titolare:
“Bussai ed entrai nel nostro spogliatoio solo dopo che Rava e Varglien mi dissero avanti”. Di come questo giovanotto elegante si comportasse tra i pali, sentiamo ancora cosa dice lui stesso:
“Ai miei tempi era molto più difficile giocare in porta, rispetto ai giorni odierni e bisognava essere atleti completi, per cavarsela senza troppi danni. Gli attaccanti avversari tiravano in porta molto spesso, non c’erano troppi marchingegni tattici; il centravanti che saltava il suo marcatore, si trovava subito la porta spalancata ed allora, dovevi uscire a valanga oppure volare da un palo all’altro. C’era un vantaggio, però: subito un goal per un errore, il portiere poteva riconquistare la fiducia e gli applausi dei tifosi, avendo la possibilità di effettuare dieci parate strepitose”. Esordisce in bianconero, ventitreenne, nella stagione 1949/50, conquistando lo scudetto numero otto, il primo troppi anni dopo la favolosa cinquina degli anni trenta. Si ripete due anni dopo e infine nel 1958, quando non è più titolare. Il suo posto quell’anno l’ha preso Carletto Mattrel, un ex raccattapalle, anche lui allenato da Combi: come consuetudine, a giochi fatti, al vecchio campione è data la possibilità di disputare l’ultima di campionato e di fregiarsi del terzo scudetto personale. Chiusa l’attività agonistica a Brescia l’anno seguente, torna a Torino a fare quello che Combi aveva fatto a lui e al suo successore: allenare altri grandi portieri bianconeri.
Una caratteristica che rende unico Giovanni Viola è il suo essere stato il filo conduttore tra quella meravigliosa squadra del Secondo Grande Ciclo Bianconero, la Juve di Gianni Agnelli con Parola, Boniperti, gli Hansen e Praest, e quella del terzo Grande Ciclo Bianconero, la Juventus di un giovanissimo Umberto Agnelli e del Trio Magico: Sivori, Charles e Boniperti. Mi è venuta voglia di parlarvi di lui, perché il 20 giugno sono trascorsi novant’anni da quando è nato a San Benigno Canavese, venti chilometri da Torino, sulla strada per la Valle d’Aosta.
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