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          L'ANGOLO DEL TIFOSO
Articolo di Marco Santarelli del 07/03/2011 17:38:56
Carlo e Delneri
Sabato scorso, guardando giocare la Juve di Del Neri, all’improvviso, mi è tornato in mente Carlo. E chi è Carlo? Giustamente chiederete voi; se avete un po’ di pazienza ve lo spiego.
Carlo è stato il mio primo allenatore di calcio. Era il (purtroppo) ormai lontano 1974 ed io, all’età di 12 anni, dopo tante partitelle giocate nel cortile di casa con i miei amici, mi approcciavo, su consiglio di alcuni di loro, ad entrare nel mondo del calcio vero, quello che, anche se a livello giovanile, era il cosiddetto calcio agonistico. Così, fiero della mia borsa della società (rigorosamente usata, non c’erano tanti soldi) e dei miei scarpini di cartone pressato, mi presentai al campo di allenamento. Carlo mi accolse con cordialità e con un sorriso affabile e bonario. Non so perché ma così, a prima vista, mi sembrò abbastanza simpatico e meritevole di fiducia.

Vistomi all’opera e favorevolmente sorpreso dal mio modo di muovermi in campo e dal mio più che discreto controllo di palla, mi prese tra i suoi. Gli allenamenti con lui erano divertenti, anche se piuttosto approssimativi. “Sono qui per insegnarvi calcio” ci diceva spesso, anche se in fondo in fondo non ci credeva poi tanto neanche lui. La parte atletica della seduta di allenamento, che tanto temevamo, consisteva in pochi esercizi da svolgere nell’area del calcio d’angolo (così ci controllava meglio) e quella tecnica in pochi e sbilenchi tiri in porta e qualche cross con il pallone che spesso terminava sulla strada o sui balconi delle case circostanti.
Ma a Carlo non importava poi molto, per lui la cosa essenziale era insegnarci calcio! Così, alla domenica mattina, ci riuniva nello spogliatoio, ci faceva i soliti discorsetti di rito e poi distribuiva le maglie. “Mi raccomando: primo non prenderle!” ci ricordava duro. Numerazioni rigorosamente di rito così come rigoroso doveva essere il mantenimento dei ruoli.

In porta Franco, lungo ed esile come un pioppo, i terzini duri e tenaci (e molto poco propensi al gioco d’attacco), lo stopper e il libero (ebbene si, purtroppo c’era ancora il libero ma il nostro calcio non aveva ancora conosciuto il Vate Arrigo, profeta del calcio sublime), lo stopper e il libero, dicevo, capaci di spazzare un pallone (come mia nonna spazzava l’aia della sua fattoria) anche a distanze chilometriche. La mediana doveva essere una linea Maginot, costruita come una diga cinese, dove lo spazio per la fantasia era destinato solo alla possibilità di immaginare un sorriso fattoci dalla compagna di classe più bella (quella che guarda solo quelli più grandi, più alti e più belli di te) ma da rilegare solo al tempo dell’intervallo o al massimo al breve tempo di una sostituzione.

Però davanti Carlo superava se stesso; sulla scelta delle punte a Carlo non potevi proprio dire niente! Credo che ognuno di voi che leggete abbia avuto in classe, a dodici anni, un coetaneo alto, con la peluria sul viso, i peli sulle braccia e sulle gambe (a volte anche sotto le ascelle), le spalle larghe e le sopracciglia folte come una foresta tropicale; lo avete avuto? (se non proprio in classe almeno nella vostra scuola media) Bene, quelle erano le punte ideali per Carlo! Non importava se avevano i piedi come ferri da stiro, l’agilità di un mulo stanco e la tenuta di un novantenne: no per lui erano fondamentali, senza di loro era inutile scendere in campo.

Così, Carlo, prima della partita, dato che per Grazia Divina ero quello che giocava meglio la palla e (a suo dire) ero capace di metterla dove volevo io, mi obbligava (insegnandomi calcio) a lanciare palle lunghe verso le nostre punte perché, con un po’ di fortuna, su tante palle ricevute qualcuna sarebbero riusciti a metterla dentro. Inutile dirvi che tornavamo a casa quasi sempre sonoramente sconfitti ma la felicità di avere imparato calcio era più grande della delusione per la sconfitta il più delle volte, a detta di Carlo, immeritata e frutto di errori arbitrali intollerabili.

Ma il picco di felicità lo avevamo quando affrontavamo le formazioni giovanili di Roma, Lazio e Pro Calcio Italia! Perdere solo per 7 a 0 (con Lazio e Roma) o agguantare un pareggio in extremis (con la Pro Calcio si intende) era il massimo della gioia, una cosa che ti sistemava il resto della stagione e in parte la vita! La Società seguiva con compiacimento il lavoro di Carlo (anche perché comunque arrivavano i soldi del NAGC – le attuali scuole calcio), con la speranza che qualcuno di noi, baciato dalla dea bendata, riuscisse a fare quel salto di qualità che avrebbe sistemato lui stesso, la stessa Società e che avrebbe fatto dire al buon Carlo: “Avete visto come so insegnare calcio?”.

Ecco perché, fratelli bianconeri, l’altra sera guardando la Juve giocare contro il Milan mi è tornato in mente Carlo. Ho ripensato a lui con affetto e l’ho ringraziato perché se poi nel corso degli anni, mi sono divertito giocando al calcio, è perché ho fatto sempre il contrario di ciò che mi diceva lui. Non vi nego che, solo per un attimo, ho pensato che Carlo fosse seduto sulla panchina della Juve ma, vi assicuro, è stato solo per un attimo!
Poi ho pensato: “Meno male che c’è Del Neri!!!!”

PS Carlo, nella vita di tutti i giorni, faceva il macellaio. Cari saluti Carlo, ovunque tu sia e grazie comunque per il tempo che ci hai dedicato.

Marco Santarelli

Roma

 
 
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