Entusiasma l’accostamento che sempre più spesso mette a confronto la Juventus di Conte con il Barcellona di Messi. Il possesso palla, il gioco corale, la tecnica, la capacità di muoversi con maestria negli spazi stretti geometrizzando i passaggi per condurre a guisa di un ricamo fino alla porta avversaria, elevandoli al ruolo di rifinitore, non solo gli specialisti dal nome di punta, ma tutti i centrocampisti. Eppure un dato emerge costante nelle discussioni tra amici, quelli che hanno la mia età o un grappolo di anni di più. Ne siamo quasi certi. Se si vuole andare avanti nel calcio, intendo avanti in classifica, bisogna prendere un goal in meno dell’avversario. Si possono avere tutti i cursori che ti pare, i migliori registi del mondo, ma senza una difesa di gente che conosce il mestiere e tiene alta l’attenzione non si cava un ragno dal buco. Zeman docet. E’ assodato che sia il centrocampo il cervello di una squadra, persino il suo cuore pulsante, ma lì dietro le spalle devono essere coperte, per impostare e condurre il gioco con serenità, senza trine, merletti, infiorettature e abbellimenti che figurano meglio in una partitura barocca che su un campo di calcio.
Nonostante Messi, tuttavia il dubbio che i nostri ragionamenti non siano solo farina del nostro sacco si fa più insistente adesso che i giorni rincorrono il Natale e il ricordo si ferma su un’auto schiantata a due passi da casa.
Ci ha lasciato così Gianni Brera. Venti anni fa. Con un’uscita di scena teatrale e perentoria. Come era lui. Che chi l’ha incontrato racconta eccessivo e arrogante al limite dell’autocompiacimento, vivo di un gusto sfrenato per i cibi e le sigarette che consumava in quantità esorbitanti per un singolo individuo, così come godeva delle diatribe che gli riusciva di innescare.
Gianni Brera è uno di quei personaggi che si stagliano e giganteggiano talmente sulla mediocrità dei tanti, che per quanto ci si possa ingegnare di studiare una critica costruttiva, non rimane che ammettere che si è inevitabilmente sedimentato nei nostri pensieri. Che si possa amarlo oppure odiarlo, non si riesce a prescindere da lui.
Perché Gianni Brera non è stato il commentatore per eccellenza dei fatti di calcio occorsi all’epoca della nostra adolescenza, in qualche modo ha contribuito a crearli. Inventando le parole non tanto per raccontarli, ma proprio per dirli. E lo ha fatto dentro un gioco di contraddizioni fatte di continuo interscambio e pertanto capaci di generare una creatura tutta nuova, nella fattispecie un linguaggio. Ecco,
Gianni Brera ha inventato il linguaggio del calcio. Un padano, come disse di sé pronunciando forse per primo la parola, cresciuto selvaggio tra scorribande nei boschi, maturato attraverso l’esperienza di soldato e partigiano, come tutti quelli della sua generazione. Talmente bravo da praticare lo sport della parola già nell’età dell’adolescenza e da coltivarlo attraverso le maggiori testate nazionali non solo sportive per un arco di anni che ha svezzato l’Italia attraverso la guerra e il dopoguerra a un passo dal millennio nuovo. Abbracciando il calcio, il ciclismo, il pugilato, l’atletica con un’autorità densa di inesauribile passione. Erano gli anni di Coppi e di Bartali, ma anche quelli che smuovevano masse di tifosi dentro gli stadi, nei quali nasceva e si sviluppava il tifo e quel tipo di gioco del calcio detto all’italiana.
Gianni Brera era molto meno selvaggio di quanto non andasse mettendo in versi. Forte di una preparazione culturale di tutto rispetto, attinse al mito e alla letteratura greca non per vestire di orpelli il calcio e le sue tattiche, ma letteralmente per farli vivere attraverso le cose che scriveva e diceva, sostanziandoli di significati, cucendo insieme cronaca, filosofia e poesia. Fu il teorico del gioco all’italiana, che chiamò “
contropiede”, ricavandone il nome dalla seconda fase della danza del coro delle tragedie greche, chiamata anti-pous e descrisse di genere femminile perché si trattava di accogliere il tentativo avversario di penetrazione della difesa più intima, per poi ripartire e colpire di rilancio. Era una tattica che a livello embrionale si era già vista negli anni trenta, quando la Svizzera era riuscita a battere il fortissimo team austro-tedesco togliendo un attaccante e aggiungendo un difensore e che adesso veniva sviluppata a suo dire per necessità, non avendo i calciatori italiani la stazza sufficiente per impostare e condurre il gioco per gli interi 90 minuti. Gli parve che tre difensori non fossero abbastanza per chiudere le entrate agli attacchi della squadra da fronteggiare e pensò a un quarto che non avesse come compito una marcatura fissa. Nacque “
il libero”, una parola così bella che ancora adesso si usa non solo in Italia, ma anche in Germania, in Francia e addirittura in Inghilterra ed è rimasta indissolubilmente legata al nome di Gaetano Scirea. Così come il contropiede e il gioco all’italiana si sono fatti magia nella Juve di Trapattoni e di conseguenza nell’Italia di Bearzot. Due universi che sarebbe limitato definire squadre di calcio, ma che intimamente fanno parte della nostra storia di italiani e, per chi ha avuto la fortuna di essere baciato dalla Signora, di Juventini. Un modo di essere che non prescinde dal resto di noi.
Non era juventino Gianni Brera e contrariamente a quello che si potrebbe pensare non era tifoso né dell’Inter, né del Milan. Lui nel cuore aveva la squadra che ha iniziato gli italiani al calcio, quel Genoa del quale alla sua morte si ritrovò tra le sue carte il documento originale che ne costituiva la fondazione. Eppure nemmeno ce ne rendiamo conto, forse neanche lo sappiamo, ma quando ci raccontiamo la partita o la commentiamo in diretta sui forum o più semplicemente ne leggiamo un resoconto sui giornali, ascoltiamo una telecronaca o anche solo pensiamo al calcio, non possiamo farlo senza Gianni Brera. Il centrocampo, la melina, l’incornare la palla colpendola di testa, sono sue invenzioni verbali. Persino l’intraducibile britannico goal, che privato di una vocale si fa verbo e diventa golear. Mentre l’attaccante può farsi “bomber” o “goleador”, persino tramutando lo stadio in un’arena completa di toro e torero. Piaceva a Brera il calcio di sostanza, maschio e non fu mai troppo d’accordo con Arrigo Sacchi. Riva e Boninsegna erano i suoi modelli di centravanti, dotati di un tiro violento e preciso, potente e decisivo. Erano bomber. Dopo venivano Rivera e Mazzola, fantasisti, goleador. Per il primo coniò addirittura l’appellativo di “abatino”, per metterne in luce il poco peso specifico.
Oggi la Juventus può vantare il migliore attacco del campionato, permettersi di vincere uno scudetto, prendersi il titolo di Campione d’Inverno e passare il primo turno di CL senza avere in rosa un “bomber” e nemmeno un “goleador” capace di quegli acuti che in passato sono stati intonati da Sivori, Charles, Boniperti, Anastasi, Bettega, Trezeguet, Del Piero. La differenza tra la squadra bianconera e il Barcellona è una sintesi di nome Messi.
Ci vorrebbero parole nuove da giocare sul campo. E giornalisti nuovi capaci di inventarle.
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