Restiamo in attesa che il tempo sia galantuomo. Che i percorsi giuridici intrapresi giungano laddove agogniamo. Che la giustizia ordinaria italiana segua il suo corso e porti al traguardo la verità, che noi sappiamo essere ben diversa da quella che in questi anni l’opinione pubblica più o meno lassista o connivente ci ha colpevolmente propugnato. Che gli organi sportivi giudicanti abbiano la dignità di non arroccarsi dietro a posizioni ideologiche e di convenienza, e non si intestardiscano imperterriti a sostenere un giudizio parallelo contrapposto alla giustizia ordinaria. Restiamo in attesa, come sulla riva di un fiume. Senza restare a guardare, però. Come non abbiamo fatto e non faremo. Quell’ingiustizia che conosciamo l’abbiamo sempre urlata, e ben sappiamo che se tacessimo tutte le parole spese verrebbero sotterrate insieme con la verità.
Ma nel frattempo, vero o finto che sia, il calcio italiano, violentato e innaturale, non si è arrestato e la nostra Juve è scesa in campo. A Rimini come a Roma, al Meazza come a Frosinone, come al Santiago Bernabeu. E noi lì, a soffrire. Non come prima. Molto, molto diversamente da prima. Il seme del vecchio adagio latino “divide et impera” è stato seminato e la gramigna germinata ovunque si è mescolata al raccolto. La tifoseria si è ritrovata divisa. Qualcuno ha voluto dimenticare. Qualcuno si è sfilato la maglia nel maggio del 2006 ed ha abbandonato la nave che affondava. Noi siamo qui a lottare. Sappiamo cosa fare quando si tratta di razionalità, per recuperare ciò che ci è stato sottratto. Ma ci troviamo a lottare con l’emotività e con il cuore, quando chi indossa quella maglia entra in campo. E il nostro dolore è lacerante. Non possiamo accettare quello che ci hanno fatto, non possiamo sentirci al fianco di chi rappresenta la Juventus oggi, come invece ci era sempre successo in passato. E d’altro canto come possiamo non tifare la nostra squadra del cuore, quando affronta qualsiasi avversario? Così, ogni volta, la lacerazione aumenta. Cuore e cervello freneticamente si scagliano l’uno contro l’altro. E a noi, sordi al dolore, non resta che seguire quei due colori, il bianco e il nero, che ci guidano, perché comunque Juve per sempre sarà…
Questo dolore ci resterà dentro, e rende innaturale ed eccessivamente cerebrale (ma pure emotiva) ogni piccola manifestazione di juventinità. Persino a Pinzolo nel ritiro appena cominciato ne abbiamo avuto l’ennesima riconferma, con i fischi di cui è bersaglio Cannavaro e che per l’ennesima volta hanno l’effetto di dividere una tifoseria già intrinsecamente mai coesa. Ancora una volta ci ritroviamo di fronte alla dicotomia cuore-cervello: con la consapevolezza che qualsiasi scelta non sarà magari quella sbagliata, ma certamente non sarà quella giusta. Qualsiasi scelta non sarà quella che ci farà soffrire di più, ma nemmeno quella che ci potrà riconciliare. Fabio Cannavaro è un simbolo: calciatore invitato ad andarsene e poi ripreso dall’attuale dirigenza, con la promessa di un posto da dirigente in futuro. Perché? Cosa ha fatto più di altri grandi campioni della nostra squadra per meritarsi tutto ciò, quando in realtà ha fatto meno di altri? Fischiare significa contestare la scelta della società. Giusto. Ma significa, in fondo, contestare anche la squadra. È giusto questo? Senza contare un'altra domanda che è lecito porsi a proposito della maggioranza dei tifosi che oggi fischiano Cannavaro: dov’erano, e tuttora dove sono, quando si trattava, e si tratta, di contestare la società che ha permesso tutto lo sfacelo dal maggio 2006 ad oggi? Non fischiare significa stare con la squadra. Giusto atteggiamento di amore. Ma in fondo significa avallare la politica societaria: com’è possibile accettarlo?
Quella maledetta estate del 2006 ci ha lasciato in regalo il senso di schizofrenia. Qualche giorno fa rivedevo in televisione il film “A beautiful Mind”, trasposizione cinematografica della biografia di John Nash, premio Nobel, straordinario matematico dei nostri giorni. Quando studiai le sue teorie all’università ricordo che rimasi folgorato dalla sua genialità. Al di là dei numeri, ciò che colpisce è la portata rivoluzionaria della sua interpretazione, innovativa e al di fuori di ogni schema matematico ed economico, di equilibrio. Già. E del resto come uomo, prima ancora che come scienziato, Nash doveva imparare ad accettare e far sua una nuova nozione di equilibrio. Ogni volta che vedo il fim, non posso nasconderlo, mi commuovo. John Nash, non potendo guarire dalla malattia, decise di convivere con la schizofrenia. Di non assecondarla. Di razionalizzarla. Come solo un grande uomo può fare.
Piccoli o grandi che siamo, a noi non resta che la stessa scelta. Razionalizzare la nostra schizofrenia di tifosi. La soluzione non esiste. Non c’è un punto di equilibrio perfetto per il tifoso della Juventus che non può accettare questa Juventus. C’è solo un nuovo equilibrio, che non è la migliore soluzione, ma che è l’unica comunque possibile. Quella maglia per noi vale troppo, e non possiamo né dobbiamo lottare contro la sua magia. Ma la sua storia per noi vale altrettanto: non potremo mai dimenticare e lotteremo anche contro noi stessi fino a che non vedremo ristabilita la verità. E le due strade possono coesistere solo se razionalizzate.
Fischiate Cannavaro, tifosi. Anzi no, non fischiatelo. Fischiatelo un po’ sì e un po’ no. Insomma, fate come volete.
La cura definitiva è solo la vittoria finale che tutti noi aspettiamo e aspetteremo. Nel frattempo, non ci resta che razionalizzare la nostra schizofrenia. Per te, Juve, noi ci riusciremo. |