Affrontare un tema delicato come quello dell’umiltà è un esercizio che difficilmente può riuscire con successo. Prima di tutto si corre il rischio di scontrarsi con la contraddizione già in partenza: giacché può sembrare ben poco modesto il solo pensiero di tentare di scriverne. E poi in questo spazio redazionale, sebbene sotto tanti aspetti e non certo solo quello del campo, le tematiche dibattute si condensano in tutto ciò che ruota intorno al mondo del pallone.
Eppure
l’umiltà è una qualità che, posseduta, mostrata, trasparsa, latente o del tutto assente, determina scelte, azioni, conseguenze, in tutto ciò che è la vita. E’ quindi costruttivo parlarne, prestando il massimo sforzo a non emettere giudizi universali, e consapevolmente che poi ognuno sarà chiamato a rifletterne specchiandosi nella propria coscienza.
L’idea di scriverne sgorga da una intervista rilasciata recentissimamente da Marcello Lippi, intervistato per la rubrica “I signori del pallone”. Non sono arrivato fino in fondo al programma, ma non mi pare che la parola “umiltà” sia stata pronunciata, o che comunque sia stato un tema dibattuto. Eppure, da tante considerazioni dell’oggi profeta non in patria, mi è quasi sembrato un leit motiv.
Marcello Lippi parla da uomo di campo. E se ci limitiamo a pensare al gioco ed alle sue dinamiche, e ai suoi protagonisti, emerge un tema assai caro al viareggino, e a tanti allenatori:
l’importanza del gruppo. Che emerge quando è più importante dei singoli. Cosa che avviene solo se i singoli accettano di condividere un “noi” vittorioso sull’”io”, o anche solo se l’“io” riterrà di ottenere maggior beneficio dall’affidarsi al “noi” rispetto all’egocentrismo.
Antonio Conte è uno che non parla di singoli, addirittura nei suoi discorsi ama costruire un “noi” così ampio dall’includere ogni collaboratore della società. Arrigo Sacchi era così maniacale sul tema, da dover subire la deliziosa parodia, diventata con il tempo un cult, circa il suo tormentone sui giocatori che dovevano avere “umiltè”. Lippi vinse i mondiali tanto con Totti e Del Piero, quanto con Grosso e Gattuso. Gli aneddoti riportati nella rubrica, in merito, sono tanti e significativi: come quello di Gattuso che con le stampelle si presentò in ritiro a Coverciano, così come Totti con la caviglia dolorante, pur di continuare a far parte del “noi”. Quella nazionale forse non fu amata solo per il successo a Berlino, ma anche per questo. Come quella di Bearzot che giocava a carte con Zoff. A dimostrazione che l’umiltà innalza e non abbassa, non nasconde ma mostra, non conduce alla penombra ma alla luce.
Chi è umile sa apprendere dagli errori e ne fa ammenda e tesoro. Ricordo molte interviste nelle non tantissime sconfitte di Lippi da allenatore della Juve, nelle quali si assumeva le responsabilità. Come del resto fece nella parentesi all’Inter. E come fece dopo il mondiale del Sudafrica.
Senza l’umiltà manca la voglia di apprendere, la consapevolezza di dover migliorare, la voglia di farlo e la convinzione che questo sia giusto. Di piedi più educati di quelli di Gattuso o Pessotto se ne sono visti tanti, eppure pochi calciatori hanno avuto una tale brillante carriera.
Un errore abbastanza comune è ritenere che l’umiltà possa cozzare contro l’autostima. Ma i due concetti sono tutt’altro che antitetici. Platini si sentiva il migliore, ma quando rispondeva all’avvocato Agnelli “Fa niente se io fumo, l’importante è che non fumi Bonini”, non peccava di superbia: ammetteva semmai che la sua classe poteva emergere solo in presenza di chi sputava sul campo due polmoni, uno anche per lui. Bonini, senza Platini, sarebbe probabilmente rimasto un anonimo mediano. E Platini, senza Bonini, forse un talento straordinario, ma non certo adatto ad ogni partita. Quel “noi” che vince sull’ “io”.
Quando si dice che lo sport è scuola di vita, e maestro, penso quasi sempre ad insegnamenti come questoQuando invece trionfano i divismi dei protagonisti, quando vengono scusati gli atteggiamenti contrari a questo spirito, quando assisto alla bonaria accettazione da parte del mondo dello sport e di tutto il contorno giornalistico di gesti che di umile non hanno nulla, resto sconcertato. Forse riflettono anche un atteggiamento che non è solo dello sport ma anche genitoriale e sociale in generale. Quella voglia di accettare l’umanità con le sue debolezze, e quella continua comprensione che sfocia nella collusione: perché giustificando gli altri, giustifico anche me stesso. Ma accettare l’umanità è giusto e umile, giustificarla sempre senza pretendere il riscatto diventa invece troppo facile. Diventa essere spettatore senza cercare il miglioramento. Diventa, quasi, indifferenza.
Elie Wiesel, premio nobel per la pace, ricordando gli orrori dell’olocausto di cui fu vittima la sua famiglia, ammonisce che “l’indifferenza può essere allettante, persino seducente”. D'altronde, essa conduce alla comoda posizione di non interventismo. Consente al genitore di rinunciare ad esercitare l’autorità (e mica è divertente, perché i tuoi figli vorresti sempre solo coccolarli) per non correre il rischio di confonderla con l’autoritarismo, sebbene siano due concetti assolutamente non connessi l’un con l’altro: peccato che così non li aiuti ad emanciparsi. Allo stesso modo, secondo i media gli eroi del calcio (ma vale anche per quelli del cinema, la politica, ecc) vanno sempre capiti, contestualizzati. Mai giudicati. Senza comprendere che valutare un atto sbagliato è ben diverso dal giudicare la persona. Perdendo così di vista i confini, portando allo stremo il discorso, di ciò che in assoluto è “bene” o “male”.
Cristianamente parlando, l’umiltà è la sede della carità. La più alta di tutte le virtù. E se mi sono permesso di puntualizzare che umiltà ed autostima non sono contrari, mi permetto altresì di ammonire contro chi maschera la falsità dietro la falsa umiltà. Cristianamente parlando, immagino nella top ten dei peccati. Lo dico intenzionalmente da questi lidi, proprio perché in prossimità di revisioni di sentenze, mentre il tempo gioca la sua partita per rimarginare le ferite dei più semplici (o indifferenti), ogni tanto qualche giornalista si ricorda che, citando Manzoni, “è male minore agitarsi nel dubbio che riposare nell’errore”. E così scoperchia, più o meno con onestà intellettuale non voglio essere io a giudicarlo, il fenomeno di Farsopoli con tutte le sue conseguenze.
GiulemanidallaJuve, negli anni, ha identificato un po’ tutti i giornalisti che se ne sono occupati. Chi rivedendo le proprie posizioni come Oliviero Beha (umilmente?), chi ponendosi dopo 8 anni domande come in questi giorni Mario Sconcerti (chiedendo umilmente aiuto ai propri lettori? O chiedendo umilmente ai propri lettori la linea editoriale più popolare da tenere?), chi scrivendo costantemente il falso.
Chi scrive da questa redazione non ha la presunzione di voler cambiare il mondo o la convinzione di poter riscrivere la storia. Forse non ha nemmeno l’esatta cognizione di come andarono le cose in tutto e per tutto in quel 2006. Ma, con umiltà, ha studiato tanto e ripercorso ogni tappa. Forse non saprà esattamente qual è la verità, ma di certo ha individuato le falsità, le bugie, le inesattezze, le presunzioni.
E avrà sempre un senso denunciare le falsità. sia esso circoscritto al calcio e alla giustizia, sia esso trasposto in ogni ambito della vita. Senza pretesa di stabilire nuove regole e nuove verità. L’umiltà della consapevolezza dei limiti delle proprie condizioni si accompagna al rifiuto dell’indifferenza. Perché come quei calciatori che hanno scritto la storia senza essere ricordati come i grandi campioni che facevano la differenza, l’importante non è essere protagonisti, ma costruire un “noi” che fa la differenza.
Nella nostra cocciuta incapacità di accettare il cinismo e la mercificazione di ogni attività e sentimento, vogliamo solo essere parte, anche invisibile, di quel “noi” che sogna uno sport pulito e portatore di valore; una giornalismo libero, indipendente ed etico; e giustizia.
Lo so, sembra lo slogan di Katiana e Valeriana, manca solo di chiedere “la pace nel mondo”. Umilmente lo so, e ammetto che può sembrare ridicolo; in fondo la storia insegna che verità e potere non coincidono mai.
Per chi Crede, il premio arriverà Domani. Ma che uno creda oppure no, senza presunzione, l’umile rifiuto della indifferenza è l’unica strada verso la libertà e la verità.
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