Giulemanidallajuve
 
 
 
 
 
 
 
  Spot TV
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
          GLI ARTICOLI DI GLMDJ
Editoriale di G. FIORITO del 22/02/2014 12:49:06
Antonio Conte tra bellezza e vanità

 

Doveva essere la settimana della bellezza. E’ sembrata la parola d’ordine del festival di Sanremo. Non oggetti del comune senso del desiderio, quanto ricerca della bellezza.
Per chi come me è stato avvicinato fin dalla tenera età allo studio del pianoforte e della storia della musica, niente di più facile. Ricomincio da Mozart. Così, complice l’omaggio al maestro Claudio Abbado, che aveva creato un’orchestra col nome del genio di Salisburgo, oggi in cerca di un mecenate per la sopravvivenza, Amadeus ha fatto il suo ingresso nel tempietto odierno della musica pop dello stivale.

E’ semplice ritornare alla bellezza. Lo stereotipo classico la vuole armonia di forme e contenuti. Tuttavia è difficile. Non complicato, a volte doloroso. Come una separazione. Bisogna fare rinunce. Liberare la verità dagli orpelli come Michelangelo i Prigioni dalla pietra. Dalle graziosità. Dalle ridondanze. E attendere. Che da qualche parte nel mondo sia partorito un Mozart.
Ovvio che Sanremo abbia dimezzato gli ascolti. Ingenuo credere che bastasse il figlio di un De André. Non è così che funziona. Devi soffiarci sopra l’alito. Come Dio. Come l’autore della Cappella Sistina. Madre Natura, come Mamma Rai, fa Paganini e non ripete. Ben sapendo che durerà solo un secondo. Che l’equilibrio sarà rotto dallo stesso eroe del punto ubi consistere (ascoltare le arie del Don Giovanni per credere), che non è mai ricerca interessata della virtù che sta nel mezzo. E’ ispirazione, afflato al quale diamo nome arte, necessariamente autentico e originale.

Sarà per questo che nonostante le buone intenzioni poi va a finire che l’individuo medio, la signora delle pulizie di turno, scambi uno scatolone di opere contemporanee per dei rifiuti e lo getti nella spazzatura (Link). Se l’arte si confonde troppo con la cronaca, allora non è arte.

E’ vanità. Ricerca fine a se stessa. Prendiamo il calcio, per esempio. E’ stata la settimana della fiera delle vanità. Iniziata con il peccatuccio di Capello, che senza volerlo si era guadagnato la medaglia di bronzo criticando le punizioni di Conte. Volessimo parlare della bellezza del calcio, per associazione di idee citeremmo le punizioni di Platini. A me torna in mente Michel sdraiato sopra l’erba di Tokio dopo che l’arbitro gli aveva annullato la rete più bella della storia del gioco del pallone nella finale della migliore edizione per livello tecnico e agonistico di Coppa Intercontinentale (Juventus Argentinos Juniors, 1985). Egli ha incarnato il calcio con una grazia leggiadra che nella maturità ha via via smarrito nell’ambizione del burocrate.

A chi abbia occhi per volare e ali per guardare, alchimia verbale riuscita dei Pooh dal guizzo poetico coraggiosamente ruffiano, il calcio ne offre di bellezza. Di punizione in punizione ci tocca menzionare almeno Maradona e Del Piero, Baggio e Messi, ma basterebbe il ricordo dell’ultima assegnazione del Pallone d’Oro. Cristiano Ronaldo l’ha spuntata con l’aiutino, ma dopo aver dispensato bellezza non solo nelle campagne pubblicitarie. Cosa può esserci di più bello di condividere per una sera la commozione con una leggenda qual è Pelé?
Lo confesso. Ho inseguito anch’io il gioco delle dialettiche leziose. Affinché siate clementi quando vi dirò che ad Antonio Conte spetta la medaglia d’argento del campionato settimanale della vanità. Non ha resistito e ha raccolto con tali sanguigni intenti l’assist di don Fabio, da scatenare una guerra mediatica selvaggia per definire la Juve più bella della storia. L’insigne detentore mondiale della cattedra di estetica del calcio, Arrigo Sacchi, ha stabilito essere quella di Conte. Aggiudicandosi la medaglia d’oro di maestro di vanità.

E di eresie, mi verrebbe da dire, se i tempi che viviamo non fossero quelli che manca pochissimo a mettere mano ai roghi nelle pubbliche piazze e non solo nei blog. Perciò puntualizziamo che anche noi facciamo ricerca e queste altro non sono che riflessioni aperte al contraddittorio, scevre da tentazioni dogmatiche. “Vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”, come le giustificava Manzoni. A ciascuno la sua Juve. Con il suo personale supporto di slanci emotivi e generazionali.

Io sono come l’Avvocato e mi emoziono quanto vedo una “J”. Ancora di più quando tutto si fa scarno, essenziale, semplificato sotto la luce estrema del bianco, che lungi dal rinunciare ai colori li comprende tutti, e il buio silenzioso e introspettivo del nero. Sicché la sintesi perfetta della felicità la trovo nella Juve.
Intimamente nella Juve che vinse la prima Coppa Uefa (edizione 1976/’77), unica vittoria internazionale con una squadra intera di calciatori italiani. E nella Juve della partita perfetta: Juventus Real Madrid 3 a 1 del 14 maggio 2003. Poco me ne importa se andò ad affogare il sogno a Manchester con un pugno di meravigliosi dall’imbattibile fattore C.

La settimana tra bellezza e vanità si è chiusa a Sochi con la sintesi straordinariamente plastica ed eterea di Carolina Kostner. Passando disinvoltamente dai panni angelici di una vergine bianca che intona l'Ave Maria di Schubert a quelli oscuri di una venere sabbatica, ha danzato il Bolero di Ravel con una sensualità talmente ingenua, così innocente, da risultare diabolica. E ha spento con la luce abbagliante della sua sovrannaturale bellezza l’oro con l’aiutino e l’argento sottovalutato di due dee niente più che magiche. Credetemi, tra cadute, salti, piroette e trottole non è stata cosa da poco.
La sudata medaglia olimpica su un collo che avrebbe turbato le notti di Modigliani, Carolina ha bypassato le cattiverie delle critiche passate, quando a perdere il filo non erano stati soltanto i suoi pattini di bronzo, ma le stilografiche delle solite iene dell’informazione. E si è lasciata andare all’estasi dall’alto del suo podio. Trafitta dal dardo della vittoria.

Negli stessi istanti una brutta Juve arrancava, perduto per l’ennesima volta il “suo” Santo Graal, poco convinta alla ricerca della coppa senza orecchie. Nobilitata sì dalla bellezza terrena di Osvaldo, uno che sembra un attaccante vero, ma illuminata dalla luce di Tevez. Uno che il 10 riesce sempre a guadagnarselo.

Sicché, nella sintesi perfetta di brutto e bello, di terreno e impercettibile, di realtà e mito, di bianco e nero insomma, la Juventus smentiva Sacchi. Ma nella ricerca del risultato, che nel calcio, perdonatemi, conta più della bellezza, confermava di aver trovato il suo fattore C. Antonio Conte.

Commenta l'articolo sul nostro forum!

Condividi su facebook! (click...)

 
  IL NOSTRO SONDAGGIO
 
Dopo la Cassazione su Moggi, cosa dovrebbe fare ora la Juve?
 
  TU CON NOI
   
 
   
 
  AREA ASSOCIATI
   
 
 
 
  DOSSIER
   
 
   
 
  LETTURE CONSIGLIATE
   
 
   
 
   
 
  SEMPRE CON NOI
   
 
   
 
Use of this we site is subject to our