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          GLI ARTICOLI DI GLMDJ
Editoriale di F. DEL RE del 13/06/2014 10:38:30
I miei mondiali: 1990

 

La coppa del mondo di calcio sbarca in Italia. 56 anni dopo torniamo ad ospitare il torneo sportivo più prestigioso del pianeta. Sarà l'edizione dei rimpianti: rimpianti per un'organizzazione presieduta da Luca Cordero di Montezemolo che si distinguerà più per i capitali bruciati nella realizzazione degli impianti che non per averli realizzati a regola d'arte, soprattutto nella progettazione dei nuovi stadi di Bari e di Torino. Rimpianti per una nazionale fra le più forti di sempre eliminata in una serata surreale da un'Argentina fra le più scarse di sempre. Rimpianti anche in prospettiva, per una Juve che sembrava destinata ad una stagione successiva ai mondiali di grande livello, visto ciò che i calciatori bianconeri seppero fare in quell'edizione dei mondiali, ma che mai si realizzò, complice ancora Montezemolo e i guai sentimentali di Schillaci.

Fu un mondiale stranissimo, fra i più brutti mai visti. Le squadre sudamericane per la prima volta non partivano coi favori dei pronostici: l'Argentina campione in carica era, se possibile, ancor più brutta e inconsistente di quella vincitrice quattro anni prima in Messico, anche perchè Maradona era il lontano parente di quel giocatore immenso ammirato all'Azteca. Il Brasile del fantastico, per simpatia e umanità, Sebastiao Lazaroni è stato forse il Brasile più europeo e più triste che si ricordi: difesa a cinque, povertà tecnica diffusa e il solo Careca come vera, unica stella. Brillava, si fa per dire, fra le formazioni sudamericane, la chiacchieratissima Colombia di Francisco Maturana, una squadra interessante, con buone individualità e un portiere pazzoide, Renè Higuita, che le dette tanta notorietà in più, ma che la condannò ad un'eliminazione bruciante contro il Camerun.

Le europee: l'Olanda più vincente della storia, anche perchè vinse l'unico trofeo finora presente nella bacheca oranage, praticamente non si presentò; il trio di fantastici tulipani del Milan, che solo due anni prima avevano vinto un europeo ricco di tanta qualità tecnica, tattica ed atletica, fece letteralmente pena ed uscì penosamente, con tanto di sputi al contorno, contro la Germania, in un simil derby Milan-Inter giocatosi a San Siro, negli ottavi. L'Inghilterra di Bobby Robson espresse un calcio solido, tipicamente inglese, ma finalmente redditizio anche fuori dai confini patrii: guidati in campo dal genio, senza sregolatezze per una volta, di Gascoigne, gli inglesi giunsero quarti, eliminati ai rigori in semifinale dalla Germania. Su tutte le altre outsiders svettava il talento folle e genialoide della Jugoslavia di Dragan Stojkovic, giocatore enormemente sottovalutato dalla critica mondiale, giocatore enorme, semplicemente.

Poi ci fu il Camerun, autentica sorpresa, che come il Belgio nel 1982 battè 1-0 l'Argentina campione all'esordio. Fu la "recita" migliore di una nazionale africana ai mondiali; lo è tutt'ora grazie alle acrobazie di Omam Biyck, N'Kono e di Roger Milla, personaggio mitologico e vero eroe nazionale. Da ultimo ho lasciato Italia e Germania, le due selezioni che erano state pronosticate in finale: i tedeschi si disponevano in campo col nuovo verbo catenacciaro del 5-3-2 che aveva infettato anche i brasiliani, ma a differenza delle precedenti due edizioni del mondiale avevano finalmente anche tecnica e freschezza atletica dal centrocampo in sù, con mini-Hassler novello Littbarsky, col duo d'attacco Voeller-Klinsmann, che se in due non facevano il miglior Kalle Rumenigge, in realtà erano molto meglio di quel Kalle Rummenigge che ai mondiali di Spagna e in Messico ci arrivò in condizioni pietose. E poi c'erano il terzino sinistro Breheme e Lothar Matthaeus, il tuttocampista moderno, un giocatore che oggi ha un suo simile in Arturo Vidal, per intendersi.

L'Italia: forte, fortissima. Dopo la debacle messicana la nazionale fu affidata ad Azeglio Vicini che tanto bene fece con la Under 21. Usciti per inesperienza in semifinale agli europei del 1988, dopo aver ben figurato nei seguenti due anni spesi a preparare il mondiale casalingo, i nostri 22 erano veramente quanto di meglio il campionato avesse offerto al suo selezionatore; ma vedremo che ciò non basterà per alzare al cielo la coppa più bella... Portieri: Zenga e Tacconi, non una, ma due sicurezze, con la non trascurabile osservazione che se fra i pali Zenga era sicuramente più forte di Tacconi, nel parare i calci di rigore il portiere dell'Inter era naturalmente negato, mentre Tacconi se non era un fenomeno poco ci mancava... Difesa: ci si poteva permettere il lusso di tenere in panchina lo Zar Pietro Vierchowod, uno degli stopper più forti del dopoguerra, e Ciro Ferrara, leader difensivo del più grande Napoli della storia, in quanto i titolari erano equamente divisi fra le due milanesi: Bergomi e Ferri, interisti, Baresi e Maldini, milanisti. Una difesa impenetrabile. O quasi... A centrocampo: sette polmoni De Napoli, il mediano perfetto; all'ala destra Roberto Donandoni, l'ultima vera grande ala destra della tradizione italiana, uno che non fece mai rimpiangere Bruno Conti e il Barone Causio; Ancelotti, Berti o De Agostini a completare la linea mediana; Er Principe Giannini, l'anello debole del nostro centrocampo, a completare il reparto. Giannini era un principe, ma non un fenomeno. Certo: meglio di Di Gennaro "il messicano", ma nettamente inferiore ad "Antonio-Antognoni Re di Spagna"; eravamo su due pianeti differenti, per classe, intelligenza calcistica, fisicità, ritmo...

Attacco: le note dolenti, come sempre quando un CT è costretto a fare delle scelte. Vicini già aveva dovuto scegliere di far fuori il suo pupillo, Roberto Mancini: troppo indisciplinato, poco incline al sacrificio in campo come nello spogliatoio. Via. Ma l'altro gemello sampdoriano, no: Vialli, no: quel Vialli che fu leader e bomber della sua U21; quel Vialli che stese gli spagnoli all'europeo; quel Vialli che con Andrea Carnevale si trovava a meraviglia... Tutto perfetto: i due titolari e la riserva: Aldone Serena che sarebbe venuto buono in quelle partite chiuse, dove un maestro colpitore di testa come lui avrebbe risolto. Ma c'è un ma, anzi due: il primo era un certo Roberto Baggio, che aveva appena firmato in mezzo ad una guerriglia urbana il contratto che lo legherà per cinque anni alla Juventus, lasciando così, l'amatissima Firenze; e poi c'era l'italiano da stereotipo, quello neorealista, quello con la storia fatta di miseria, sacrificio e riscatto, quello con due occhi grossi come pesche noci che raccontavano in un semplice sguardo tutta questa storia: Salvatore Schillaci, detto Totò, da stereotipo, come il principe De Curtis, un altro Italiano, con la maiuscola. Schillaci fino all'anno prima era il capocannoniere della serie B, del Messina di Zeman... Fu preso dalla Juventus più low cost della storia come novello Anastasi. Giocò una stagione immensa, prima come centravanti atipico, poi come seconda punta in appoggio a Casiraghi. Segnava Totò: 15 gol in campionato, spesso di rara bellezza, quasi sempre con una freddezza naturale ed una velocità di esecuzione che aveva mandato in bambola anche la difesa del Milan, più volte in stagione. Fu convocato per fare il quinto, o la mascotte. Si rivelerà il nuovo Paolo Rossi.

Questi due piccoletti, dall'anno successivo compagni alla Juve, sconvolsero le gerarchie, Vicini, l'Italia intera. Erano perfetti. Baggio disegnava calcio ed arte come solo Maradona era capace di fare; Schillaci ebbe due settimane e mezzo di autentico stato di grazia: qualsiasi palla toccasse si depositava in rete come per magia. Segnò anche di testa e di sinistro, lui che in campionato segnò solo e soltanto col suo piede, il destro. Il manuale del perfetto allenatore dice che quando la sorte ti regala un dono del genere esso vada curato e preservato. Vicini ebbe l'incoscienza di sfidare la sorte.

Arrivammo in semifinale come un carrarmato, schiacciando tutti, magari non nel punteggio, ma sicuramente nel gioco. In semifinale ci toccò l'Argentina di Maradona, arrivata lì per caso, ripescata fra le migliori terze più per il solito tocco di mano di Maradona che non per meriti propri, per una partita strana e contestata coi brasiliani, per la follia stupenda della miglior Jugoslavia di sempre e per quella fortuna che Vicini ignorò, ma che non ignorò Bilardo, CT argentino, fortuna che fece sì che il portiere Neri Pumpido, infortunatosi alla mano, si dovette sostituire con Goycoechea, un portiere mediocre, che però aveva un dono: sapeva parare i calci di rigore come pochi, sicuramente meglio di Zenga...

Una semifinale assurda, giocata assurdamente a Napoli, dopo che l'organizzazione di Italia '90 aveva di fatto impostato il calendario, come era prassi in quegli anni, affinché la squadra di casa rimanesse a giocare sempre nella capitale. L'ennesima genialata di un comitato organizzatore indecente fu quella di far trasferire l'Italia a Napoli per la semifinale. Ma a Napoli l'Italia incontrò l'Argentina di Maradona, il vero sindaco della città, l'unico re di quella città. Fu un tifo freddo, corretto e leale per entrambe le formazioni, ma freddo. Fu, soprattutto, la partita delle parole al vento e delle scelte del cuore: le parole al vento di Gianluca Vialli, il duro che "quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare", si col cavolo... E le scelte del cuore, errate, di Vicini, che a quelle parole al vento credette a tal punto da sacrificare il nostro Maradona, Roberto Baggio, che meglio del vero Maradona aveva sin lì giocato.

La partita la ricorderete tutti, con la catena di orrori difensivi di marca nerazzurra, Ferri e Zenga, che consentirono a Caniggia di pareggiare il solito gol del solito Schillaci. Il resto fu un dramma nazionale con Zenga incapace anche solo di intuire un solo calcio di rigore e Goycoechea che invece ne prenderà ben due. Pianto. Forte. Rumoroso. Nessun carosello come le cinque serate precedenti. A Roma noi non ci tornammo più. Andammo a Bari a prenderci il terzo posto contro gli inglesi: 2-1, gol, guarda caso, di Baggio e di Schillaci, la coppia perfetta fatta scoppiare dall'arroganza e dalla riconoscenza malintesa. La finale fu ancora una volta fra Argentina e Germania. Una finale bruttissima, forse la più brutta che abbia mai visto. Gioco zero, cartellini rossi tanti; i tedeschi che la vincono su un rigore dubbio calciato di destro da un terzino sinistro che aveva capito che quel Goycoechea là stava vivendo il suo stato di grazia. Finalmente loro: i tedeschi. Finalmente campioni del mondo, per la terza volta, come l'Italia, come il Brasile. Campioni in Italia, a farsi beffe della storia che nella seconda guerra mondiale li cacciò dal suolo patrio. Il più grande rimpianto della storia del calcio azzurro. Una beffa che ancora oggi fa tremendamente male.

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