Non voglio parlare di Carlos Tevez dal punto di vista tattico: c’è chi può farlo meglio di me. Qui vorrei solo dire cosa rappresenti quest’uomo per milioni di persone. La mia è una standing ovation che gli faccio da solo, certo che sarà condivisa da tantissimi, rivolta ad uno dei più grandi che abbia mai indossato la maglia bianca e nera della Juventus. In ogni caso un uomo, prima che un calciatore.
Egli, per la Juventus, è un bene di lusso e come tale sarebbe bene risparmiarlo, almeno quando la partita pare ormai segnata a nostro favore: solo allora deve essere sostituito, visto quanto incide sulla gara, sia direttamente che favorendo le giocate dei compagni. In campo fa sempre più di quanto ci si aspetti da lui, lo dimostrano gli applausi a scena aperta che gli sono riservati nei secondi che impiega ad uscire. Avviandosi alla panchina, il suo sguardo all’allenatore non è mai di ringraziamento, tipo: “Grazie, sono ottanta minuti che corro senza mai fermarmi ed ho anche un dolorino qui, grazie che mi fai riposare un po’”. No, usualmente guarda il tecnico, ma educatamente, senza un gesto o una parola, solo con gli occhi gli fa capire che n’aveva ancora, e che se era per lui, rimaneva in campo per i novanta più recupero. Anche se dopo due giorni c’è la Champions, e l’allenatore, giustamente, cerca di risparmiare fatica ed infortuni ai migliori
Accompagna sempre l’azione, mai si può accusare di aver perso un pallone per non aver seguito il compagno che avanzava. C’è una palla persa? Usualmente non dipende da lui, che si era diretto là dove il Dio del pallone avrebbe voluto che il suo discepolo mandasse la sfera: Tevez era lì, dove doveva essere, è il compagno, che ha messo il pallone là dove non doveva.
Non si lamenta mai per quella corsa in più che non ha potuto mettere a frutto per la squadra e, ordinatamente, torna indietro a coprire. La maestria nel dettare il passaggio ai compagni con spostamenti illuminati, è pari alla sua capacità di distribuire palloni, che arrivano là, proprio dove devono andare, a creare superiorità numerica od un’occasione da rete. Com’è che il buon Marotta ha trovato questo gran campione a prezzi quasi di saldo? Gente che capisce di calcio, a giro per il mondo ce ne deve essere sempre meno: fanno aste al rialzo per certe scamorze di giocatori e ci permettono l’acquisto di questo supergiocatore ad una cifra più che contenuta, visti i prezzi correnti. C’è forse qualcuno che pensa che i 40 milioni dell’Arsenal per Alexis Sanchez o gli 80 spesi da Barcellona per Vampiro Suarez siano stati spesi meglio dei nove (più bonus) che Marotta ha dato ai Citizens? Quanti, dei cosiddetti top players, oltre all’abilità tecnica sono leaders in campo e nello spogliatoio, quanti non perdono più di mezzo secondo a protestare con l’arbitro per l’ennesimo fallo subito, si rialzano immediatamente anche dopo il contrasto più duro e si rimettono a correre più di prima? Quanti pretendono di scendere in campo anche con i muscoli a rischio (vedi gara con l’Udinese)? Quanti, persa la palla inseguono chi gliel’ha tolta fino a riprendersela? Quanti aiutano tutti i compagni in difficoltà che sono nel loro raggio d’azione (tenendo presente che il campo d’azione di Tevez è “dappertutto”)?
Un’altra cosa che fa grande Carlitos, oltre alle qualità tecniche ed atletiche è il ricordo della fame che deve aver sofferto da piccolo: se non era fame, era sicuramente un’alimentazione poco adeguata. Badate che per fame non intendo soltanto il fisiologico stimolo del nostro corpo ad assumere nutrimento. Per fame, nel suo caso intendo una vita esposta alle brutalità di un regime, all’essere confinato in un quartiere ghetto con tutti i problemi d’esclusione connessi, ma evidentemente coinvolto in quella fratellanza che si crea circostanze simili. Egli, oltre ad essere un gran calciatore, è un calciatore che gioca con questo ricordo della fame, della situazione d’estremo degrado dove è stato costretto a nascere, crescere e vivere. Chiamiamola pure fame, per semplicità, quella fame che ha trasferito idealmente nel calcio e che lo fa combattere su ogni pallone, fare a sportellate con difensori alti dieci centimetri e pesanti quindici chili più di lui ed uscendone spesso vincente. Tevez però ricorda anche la fame degli altri, quelli che sono rimasti al Barrio 31, a Fuerte Apache, nella Ciudad Oculta, e probabilmente lo fa non soltanto con le scritte sulle magliette che indossa sotto la casacca ufficiale. Questo è ciò che lo fa amare più di altri, anche più ricchi e famosi, nati in Argentina come lui. E’ lui El Jugador del Pueblo, è lui che i suoi compatrioti vogliono vedere con la maglia albiceleste, e non solo per le qualità tecnico-atletiche. L’unico a non averlo capito è Sabella, infatti gli ha fatto “astutamente” saltare i mondiali. Un altro che di lui ha capito poco è Mancini, ma è proprio per questo che Marotta ha risparmiato un bel po’ di soldini (grazie, Mancio!).
Carlitos è l’erede più degno cui Alex Del Piero potesse lasciare la sua maglia. Altro che ritirare la maglia numero 10 (alla Juve, per fortuna, se l’usanza di ritirare la maglia fosse stata sempre in auge, dovremmo numerare le maglie dal cento in su): noi quel numero magico lo vogliamo vedere sempre. Oggi è lui che la indossa, speriamo lo faccia per tanto tempo ancora, per farci ammirare sul campo quel numero 10 che lui stesso ha contribuito a far diventare ancora più magico.
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