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Editoriale di M. LANCIERI del 26/06/2017 09:29:11
Lendl, Jordan e Pelé: ricette per la vittoria

 

Nel 1984, Ivan Lendl aveva 24 anni ed era il n.1 nella classifica ATP. Tutto bene, se non fosse che non aveva mai vinto un torneo del Grande Slam. Non solo: era arrivato ben quattro volte in finale (due a Parigi, una agli US Open e una in Australia), perdendo sempre, e talvolta anche piuttosto male, nonostante in tre di queste partisse favorito. Alle quattro dei Major, poi, si aggiungeva anche una finale di un Masters, persa contro Borg.

Lendl si era costruito la nomea di giocatore incapace di vincere i tornei importanti, per colpa della testa. E chi ha provato anche solo una volta a prendere in mano una racchetta sa che i blocchi mentali in un campo da tennis sono tremendamente più dannosi che in qualsiasi sport di squadra.
Poi, nel 1984, a Parigi, la nemesi: Lendl gioca contro McEnroe, uno di quelli che maggiormente aveva approfittato della sua (presunta) incapacità di vincere le partite importanti, ed è sotto due set a zero. Tutto lascia pensare all'ennesima sconfitta, ma Ivan, forte di una preparazione fisica devastante per quei tempi, vince i tre set successivi e dà inizio ad una serie di successi storici, che alla fine della carriera gli porteranno ben 8 titoli dello Slam.

Non vi piace il tennis? E allora cambiamo sport: basket. Siamo sempre nel 1984: quella dei Chicago Bulls era una squadra mediocre, che non aveva mai neppure raggiunto una finale di conference e stava attraversando il periodo peggiore della sua storia. In estate, arrivò un signore di nome Michael Jordan: era la terza scelta del draft (ebbene sì: i Portland Blazers gli preferirono Sam Bowie!) e la franchigia di Chicago credette talmente in lui da accordargli la clausola love of the game, che di fatto gli permetteva di giocare nel tempo libero dove e quando voleva, senza alcuna ripercussione economica anche in caso di infortunio.

Nonostante l'arrivo di MJ, i risultati continuarono a non essere esaltanti: nel 1986, ai playoff contro i fortissimi Celtics di Larry Bird, Jordan segnò addirittura 63 punti in una sola partita (l'allenatore dei Celtics raccontò che ogni volta che guardava in panchina per sostituire il malcapitato che doveva marcare Jordan, tutti i giocatori abbassavano lo sguardo!), eppure Chicago perse la partita e la serie. Nel 1987, furono nuovamente eliminati da Bird e compagni e nel 1988, dopo un'ottima regular season, persero in semifinale contro Detroit. In quella squadra c'erano Jordan, Pippen, Grant e Paxson, ma al momento clou della stagione i Bulls uscivano sempre sconfitti. Nei due anni successivi, Chicago acquistò anche Cartwright e B. J. Armstrong, ma perse ancora contro Detroit, portando così a tre le sconfitte consecutive contro i Pistons.

In quel momento della carriera, Michael Jordan era ai Bulls da 6 anni ed era considerato il giocatore più forte e perdente della NBA. Ormai, molti credevano che quella squadra non potesse vincere un titolo. Ma in panchina c'era un altro fenomeno, Phil Jackson, che nonostante la sconfitta del 1990 contro Detroit al suo primo anno con i Bulls, non aveva intenzione di credere che esistesse qualcosa di impossibile. E la sua stella con la maglia 23 si convinse a seguirlo, rinunciando a cercare sempre di vincere da solo e credendo negli altri membri di un team favoloso, che da quel momento portò a casa 6 titoli in 9 anni (e forse, senza il drammatico omicidio del padre di Jordan, avrebbero potuto addirittura essere di più!). Da squadra mediocre, passando per squadra incapace di vincere nei momenti che contavano, quei Bulls entrarono nella storia del basket, come una delle formazioni più forti e vincenti di sempre.

Non ve ne frega niente del tennis e neppure del basket? Vi piace solo il calcio? In questo caso, occorre tornare indietro di qualche decennio, per l'esattezza a metà del secolo scorso. Nel 1950, si disputava la quarta edizione dei Mondiali di calcio: dopo la vittoria dell'Uruguay alla prima competizione e i due titoli italiani nelle successive, c'era stata l'interruzione dovuta al secondo conflitto mondiale e si poteva riprendere nella nazione dei talenti della ginga. Per un popolo che già a quei tempi viveva in gran parte in assoluta povertà, il calcio rappresentava molto più di un passatempo o una passione: era il sogno di riscossa, l'unica occasione di potere essere orgogliosi della propria nazione.

La Seleçao era la grande favorita di quel torneo: dopo avere vinto agevolmente il girone iniziale, dominò anche le prime due partite del girone finale (unico mondiale della storia senza una finale secca) 7-1 contro la Svezia e 6-1 contro la Spagna e giocò così l'ultimo incontro con l'Uruguay potendo anche pareggiare per vincere il titolo. Ma la convinzione generale era che quel 16 luglio, in un Maracanã gremito di brasiliani (200.000 spettatori!), i padroni di casa avrebbero stravinto anche quella gara: tanto per capire quale fosse il clima, alla vigilia dell'incontro tutti i giocatori brasiliani ricevettero dalla federazione un orologio d'oro con l'incisione "ai campioni del mondo". Dopo un primo tempo terminato a reti inviolate nonostante l'assedio brasiliano, al 2' della ripresa arrivò il gol del vantaggio dei padroni di casa: Zizinho servì Ademir, che insaccò. Non si può neanche dire che i tifosi iniziarono a festeggiare in quel momento, perché la loro certezza di vincere li aveva portati a cominciare i festeggiamenti ben prima dell'incontro, indossando la maglietta "Brasil campeão 1950", di cui erano state vendute oltre 500.000 copie. Dopo 20 minuti, accadde il primo episodio inaspettato: Schiaffino si presentò tutto solo davanti al portiere brasiliano e realizzò la rete dell'1-1. I brasiliani non mutarono atteggiamento, cercando di attaccare ancora, ma al 79' accadde l'imponderabile: Ghiggia entrò in area lateralmente e, anziché crossare, infilò ancora Barbosa, per il definitivo 2-1 uruguaiano.

Quel giorno passò alla storia come Maracanazo ed ebbe conseguenze ben più gravi del mero aspetto sportivo: molti tifosi avevano scommesso tutti i loro averi, rovinandosi e finendo addirittura per suicidarsi. Alla fine, tra suicidi ed arresti cardiaci, morirono ben 90 brasiliani!
La sicumera dei padroni di casa (al momento della premiazione, non fu neppure suonato l'inno dell'Uruguay, perché la banda non aveva lo spartito, considerato inutile...) si trasformò in pessimismo e critica assoluta nei confronti del proprio calcio. Nel mondiale successivo, Svizzera 1954, il Brasile, appena ai quarti di finale, si fece umiliare dall'Ungheria priva di Puskas e con un giocatore infortunatosi dopo soli 30 minuti (a quei tempi, non esistevano le sostituzioni). Al termine dell'incontro, le discussioni sfociarono in una rissa (passata alla storia come "battaglia di Berna"), sedata solo dall'intervento della polizia elvetica.

La nazionale verdeoro (divenuta tale solo dopo il Maracanazo, ché fino a quel giorno la divisa era bianca con il colletto blu) si presentò ai mondiali svedesi del 1958 tra mille dubbi, che perdurarono anche ai quarti di finale, vinti 1-0 contro il non irresistibile Galles. Neppure la semifinale vinta 5-2 contro la Francia, con il giovanissimo Pelé sugli scudi (non si limitò a segnare la sua prima rete ai mondiali: realizzò addirittura una tripletta!), impose il Brasile come favorito in vista della finale: la forza degli avversari (i padroni di casa svedesi, che contavano, tra gli altri, su Liedholm, Hamrin e Simonsson) e soprattutto l'assoluta mancanza di fiducia dei brasiliani dopo il Maracanazo li ponevano come vittime sacrificali per il successo della Svezia. E infatti, dopo appena 4', Liedholm scartò un paio di avversari e firmò l'1-0. Ma i brasiliani reagirono e cambiarono il loro destino dopo appena 5 minuti, grazie ad un'azione di Garrincha e Pelé, che confezionarono il gol di Vavá. Fu solo il primo dei cinque gol con cui Pelè (altra tripletta!) e compagni distrussero gli avversari e cancellarono il Maracanazo, alzando l'agognata coppa. E la loro epopea non si fermò nel 1958: nelle tre edizioni successive, i verdeoro vinsero altri due titoli, entrando così nella storia.

Perché ho voluto raccontare queste tre storie tanto diverse, che probabilmente molti lettori già conoscevano più o meno nei dettagli? Perché hanno un filo comune: la capacità di non arrendersi ad un presunto destino, ad un'inerzia di sconfitte, più o meno lunga. Ma soprattutto la capacità di ribaltare lo status quo grazie al talento e al lavoro quotidiano.

Inutile nasconderci dietro il paravento, effettivamente enorme, di sei scudetti consecutivi: la partita di Cardiff ci fa male. È tra le più dolorose di sempre, non perché si dovesse vincere contro il Real stratosferico di CR7, ma perché abbiamo rinunciato a giocare, e non giocare una finale di Champions League è una colpa grave, tanto più se succede ripetutamente. Ma poi ripenso a Lendl, a Jordan o al Brasile degli anni '50 e '60, che prima di essere vincenti hanno vissuto delusioni, talvolta drammatiche. E allora fidiamoci di loro, che poi qualche soddisfazione se la sono presa: "Ho sbagliato più di 9000 tiri nella mia carriera. Ho perso quasi 300 partite. 26 volte, mi hanno dato la fiducia per fare il tiro vincente dell'ultimo secondo e ho sbagliato. Ho fallito più e più e più volte nella mia vita. È per questo che ho avuto successo" (Michael Jordan). Non smettiamo mai di crederci, senza dimenticare l'insegnamento di Einstein: "Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettare risultati diversi". Forza Juve!

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