Allora, in Europa, i gol in trasferta non “valevano il doppio” e per chi invadeva il campo non c’era l’arresto. Visto anche il titolo, i più anziani di voi, a questo punto, già hanno capito dove sto andando a parare. Siamo nel 1968 e la Juventus è ai quarti di finale della Coppa dei Campioni. Il 31 gennaio, nell’andata di Braunschweig, l’autorete di Kaack e il gol di Sacco avevano lasciato accesa la speranza del superamento del turno, nonostante il risultato finale di tre a due per l’Eintracht.
Nel ritorno di Torino, il 28 febbraio, agli ordini dell’austriaco Schiller, Heriberto Herrera ha schierato in campo Anzolin, Salvadore e Leoncini; Bercellino I, Castano e Sacco; Magnusson, Del Sol, De Paoli, Cinesinho e Zigoni. Si gioca di pomeriggio e, nonostante l’orario, al Comunale ci sono quarantamila spettatori. I bianconeri cercano subito quella rete che pareggerebbe i conti, per poi cercare con calma il secondo gol, quello che avrebbe significato la qualificazione alle semifinali. Il tempo passa e quella maledetta rete non arriva, nonostante le tre punte messe in campo da HH2. Con l’inesorabile trascorrere dei minuti, la gara si fa progressivamente a senso unico, con i tedeschi arroccati nel fortino della loro area. A tre minuti dal termine, Shiller accorda un calcio di rigore ai bianconeri. Un minuto di proteste e finalmente il tiratore designato, Giancarlo Bercellino, dispone il pallone sul dischetto. Nel più assoluto silenzio si avverte benissimo la gran botta dello scarpino dello stopper sul pallone e il rumore della rete che, nonostante allora fosse rigidamente fissata ai supporti, si gonfia all’inverosimile. Il portiere non è ancora atterrato sulla sua sinistra, che l’urlo dei quarantamila si alza altissimo a esorcizzare quella paura tremenda di non riuscire a impattare il punteggio. Una vera cannonata, un tiro potentissimo, centrale, a mezza altezza, quasi da sfondare la rete. Gli ultimi due minuti della gara sono senza storia e, al fischio finale, un solitario invasore di campo, che non subirà arresti né DASPO, raggiunge Bercellino e si fa regalare la maglia. Alla gara di spareggio ci si penserà poi, oggi va festeggiato l’eroe di giornata.
Il match-winner è un omone grande e grosso, di professione centromediano, come si diceva allora, che non aveva certo il suo forte nella finezza stilistica. Con gli occhi d’oggi, non si comprenderebbe questa designazione a rigorista, ma al tempo, il calciare rigori spesso voleva dire tirare delle grandi botte, neanche molto angolate e non precedute da alcun tipo di finta. “Berceroccia”, questo il soprannome, o Bercellino I per distinguerlo dal fratello Silvino, anche lui brevemente in bianconero, i rigori li tirava così: dritto per dritto, di una potenza inaudita e… a occhi chiusi. Era davvero così “Berceroccia”, grande, grosso e timido: i compagni più arditi, primo quello scapestrato di Zigoni, per testare i propri addominali, lo usavano come “metro”. “Dammi un pugno qui, Berce”. “Ma ti faccio male, Zigo” (“Zigozago” era il soprannome completo di Zigoni). “A tutta forza, Berce!”. Finalmente il cazzottone arrivava sugli addominali contratti di Zigoni, che si allontanava, livido in volto, e con un filo di voce sussurrava: “Sentito niente…”.
Quasi dimenticavo. La bella di Berna, il 20 marzo 1968, arbitro Dienst, ci vide prevalere col minimo scarto per il gol di Magnusson, al cinquantacinquesimo. Meglio, invece, dimenticare la semifinale col Benfica.
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