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Editoriale di S. BIANCHI del 07/04/2018 18:25:38
7 aprile: auguri al Pelè bianco

 

«In terza media, la professoressa ci diede un tema: parlate del vostro personaggio preferito del Novecento. I miei compagni scrissero di Kennedy e di Papa Giovanni, io di Anastasi». Questo ha scritto Darwin Pastorin nel 2011: io, quasi coetaneo del giornalista, avrei fatto lo stesso. Perché Anastasi non era solo l’idolo degli operai meridionali saliti a Torino per lavorare in FIAT, ma era l’idolo anche di tanti adolescenti come me, sparsi per l’Italia e rimasti orfani di Omar Sivori.

Anastasi ha sempre giocato con numero nove sulla schiena, ma «… il centravanti non l'ho mai fatto. E seppur scendessi in campo, anche in Nazionale, con la maglia numero nove, spesso mi posizionavo sulla sinistra, per effettuare dei cross a favore del compagno di reparto. Mi piaceva allargarmi, spaziare, servire i compagni. Giocavo come numero nove, però poi il numero nove lo facevo poche volte. Penso di essere stato un giocatore altruista, giocavo soprattutto per la squadra, mai per me stesso. Le mie qualità migliori erano lo scatto, la velocità e l'altruismo. Insomma, ero un uomo d'area che sapeva anche manovrare». Quello che dice Pietro è vero: ci mette l’anima in quello che fa per quella maglia bianconera. Come si fa a non innamorarsi di “Pietruzzu ‘u Turcu”, un uomo che, oltretutto, nel portafoglio conserva ancora una foto che lo ritrae raccattapalle, al Cibali, accanto al suo idolo John Charles?

In lui si apprezzavamo la generosità, l’abilità, le reti rapinose e la frenesia che metteva nel suo gioco. Poco importa che «spesso … anticipassi il pallone. Però rimaneva lì, tra i miei piedi. Ed io, a quel punto, potevo fare la giocata desiderata». Era certamente uno dei migliori della sua generazione: sentite cosa ne scriveva Cesare Lanza: «Di statura piccola, tocca la palla come Meroni, di destro e di sinistro, magari con minore fantasia del Beatle comasco, ma, spesso, con superiore altruismo; ritorna pure, ed inventa palle gol». L’elzeviro più bello, manco a dirlo, è del grande Vladimiro Caminiti: «Paragonato ai centravanti tradizionali, è un misto di Gabetto e Lorenzi, ha più estro che tecnica, più possesso fisico dell'azione che senso tattico; caccia il goal come uno stallone, la femmina». Una sintesi perfetta.

Pensare che era già quasi interista. Anzi, a trattativa quasi completata, tanto che con quella magliaccia aveva già disputato il primo tempo di un’amichevole, «tornato negli spogliatoi per l'intervallo, un fotografo che conoscevo mi disse: guarda, Pietro, che sei un giocatore della Juventus. Un po' mi dispiaceva, perché voleva dire allontanarsi da Varese», dove viveva la fidanzata Anna, «ma ero al settimo cielo perché vestivo la maglia della squadra di cui sono sempre stato tifoso: si avverava un sogno». Il blitz fu gestito in prima persona da Gianni Agnelli, che bypassò la dirigenza interista e si accordò in un attimo con Borghi, Presidente del Varese e proprietario dell’Ignis, aggiungendo una fornitura di compressori per frigoriferi al prezzo del cartellino.

Tralascerei la storia dei tre scudetti e dell’Oro Europeo vinti negli otto anni di militanza bianconera e il fatto che lui e Bettega, nei sei anni di comune militanza bianconera, costituirono una delle migliori coppie d'attacco di tutti i tempi. Non rimarcherei nemmeno quella fantastica tripletta record, segnata in cinque minuti alla Lazio, da subentrante, per passare a parlare dei motivi del distacco. A dicembre 1974, nella stagione del terzo scudetto, nonostante che il Dottor La Neve avesse attestato il suo infortunio, fu tacciato di vigliaccheria da Parola, che lo lasciò in panchina per tutto il mese. Nel marzo 1976, con la Lazio, rendendosi conto della propria giornata no, chiese la sostituzione: Parola la prese male e mise ancora il capitano tra le riserve. All’ovvia richiesta di chiarimenti da parte di Pietro, ci fu una rispostaccia da parte del mister, volarono parole grosse (e dichiarazioni ai giornalisti), e Anastasi, fuori rosa, vide lontano dal campo le nove partite del sorpasso-scudetto del Torino ai danni della Juve.

A fine stagione Boniperti organizza lo scambio Anastasi - Boninsegna, ma Pietro, all’Inter, non s’integrerà mai, iniziando il proprio declino agonistico. A trent’anni passa all’Ascoli, dove cerca con tenacia la sua centesima rete in serie A. La segna il 30 dicembre 1979, proprio a Torino: «dopo otto minuti batto Zoff con un colpo di testa e tutto il Comunale mi applaude. Come se non fossi mai andato via». Difficile cancellare dal cuore uno come Pietro Anastasi.
Pietro, oggi tu compi settant’anni. Io ne ho qualcuno meno di te, e posso assicurarti che, uno dei miei ricordi più belli fu quando ti vidi uscire dagli spogliatoi dell’Arena Garibaldi, dopo Pisa - Juventus del 23 marzo 1969. Tu non avevi giocato, avevi il braccio ingessato, ma ricordo ancora il tuo sorriso quando ti toccai il gesso e ti feci gli auguri per una veloce guarigione. Oppure, quella volta al Delle Alpi: sedendomi, ti riconobbi nel mio vicino di sinistra. Mi rialzai immediatamente e, porgendoti la mano, ti dissi: «Buona sera, Signor Anastasi». Ancora il tuo sorriso quando, rispondendo alla domanda di come avessi fatto a riconoscerti, replicai: «Guardi che non è cambiato tanto». Iniziammo a darci del tu, e fu uno spettacolo guardarti di sottecchi durante la gara (non so quale gara di campionato fosse, per me quella sera la cosa più importante era un’altra): non stavi fermo un attimo, seguendo, palpitante e partecipe, le azioni della “tua” Juventus. Grazie, Pietro, grazie per tutto quello che hai significato per tanti (ex) ragazzi come me.

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