Nel 59/60, dopo un anno sabbatico, la Juventus del “Trio Magico” torna a splendere: è bastato affiancare a Parola, l’allenatore, il Direttore Tecnico Renato Cesarini. Immediato ritorno allo Scudetto, con ben otto punti di vantaggio sulla Fiorentina e un Sivori in grande spolvero che recupera la brillantezza di due anni prima e, solo in campionato, segna la bellezza di ventotto reti (con Charles che ne realizza “solo” ventitré). Non vi voglio parlare, però, del campionato, bensì della prima partita della Coppa Italia di quell’anno. È il 4 novembre 1959 e l’arbitro Campanati si appresta ad arbitrare una partita quasi rocambolesca.
Siamo agli Ottavi di finale, che si disputano in gara unica, in casa della squadra che non proviene dalle gare qualificazione. Tra gli undici doriani in campo a disposizione dell’allenatore Monzeglio, a parte il terzino destro Vincenzi, ci sono due signori che poco diranno ai lettori più giovani, come l’idolo blucerchiato Ocwirk, e il grande “Nacka” Skoglund, c’è Azeglio Vicini, futuro allenatore degli Azzurri, e c’è infine Bruno Mora, che dal 1960 approderà in bianconero. La Juventus, invece, scende in campo con Mattrel, Castano, Leoncini; Bruno Mazzia, Cervato, Umberto Colombo; Nicolè, Boniperti, Ninni, Sivori, Stacchini.
Dopo essere passati in svantaggio al quindicesimo (Skoglund), Stacchini, Sivori e il rigore di Cervato chiudono il primo tempo sul tre a uno per noi. Nel secondo tempo, il solito Skoglund accorcia le distanze, prontamente ristabilite da Sivori, ma un rigore di Milani al settentaquattresimo e la rete di Mora proprio al noventesimo, fissano il risultato sul quattro pari. È Nicolè, al primo minuto del secondo tempo supplementare, a fissare il risultato su quel cinque a quattro per noi che vale la qualificazione.
In quest’altalena di risultati, qualcuno debole di cuore potrebbe aver avuto dei problemi. Sivori ci mise del suo, rendendo epico uno dei gol della sua doppietta, anche se non è dato sapere se il primo o il secondo. L’azione è da cineteca: superati in dribbling due difensori e il portiere, a porta vuota si ferma, “chiamando” l’entrata alla disperata del quarto difensore sampdoriano. Vincenzi “abbocca” e arriva in scivolata, ma Omar lo evita e depone la palla in rete con un calcetto.
A Sivori piaceva evidenziare in tutti i modi la sua superiorità: per amor proprio, per indispettire l’avversario, per far godere il suo pubblico. E se non bastava la superiore perfidia del suo piede sinistro, vai con falli e falletti, con i calzettoni alla “cacaiola” (come diceva Brera), con il tunnel anche ripetuto e con questi colpi di teatro, che se ti fai un nemico (oggi Vincenzi, Pin del Padova nemmeno due mesi prima), mandi in estasi i tuoi tifosi, che settant'anni dopo ricorderanno ancora le tue gesta. Omar doveva dare spettacolo: se qualche Pin o Vincenzi ci faceva la figura del pollo, peggio per lui.
Mi sembra di sentirlo, in una vecchia intervista, con quel suo italiano tipico per un madrelingua argentino, parlato con calma e pronunciato con la sua voce strascicata:
“Durante una partita di Coppa Italia con la Sampdoria segnai un gol un po’... strano. Alla fine dell’incontro trovai diecine di giornalisti che volevano una spiegazione. Volevano sapere perché, dopo aver dribblato a pochi metri dalla porta due avversari e il portiere, per mettere il pallone in rete ho voluto attendere l’intervento di un quarto giocatore, quando avrei potuto benissimo segnare il gol senza correre rischi. Proprio qui sta il punto: ho atteso l’ultimo avversario, spiegai, per saltarlo con una finta e segnare poi da trenta centimetri. Volevo dare il brivido e ci sono riuscito”. Iscriviti al nostro Gruppo Facebook!
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