Prima parteA distanza di due anni ho avuto il piacere di intervistare nuovamente
Davide Giacalone, attualmente firma di Libero e collaboratore con l'emittente radiofonica nazionale RTL 102.5 dove ogni mattina, dal lunedì alla domenica, alle 7:10 circa durante la rassegna stampa contenuta nel programma Non stop news, commenta una notizia apparsa sulle prime pagine dei quotidiani nazionali.
A seguito degli avvenimenti che in questo breve periodo hanno caratterizzato la vita collettiva, politica e, nello specifico, sportiva, Giacalone ha cercato di tracciare, attraverso le domande che gli sono state poste, il profilo di un Paese che vive ancora l'agonia dell'ultimo ventennio; un Paese che ha trascinato con se una vita pubblica non certo più sana e morale di allora.
Calciopoli, giustizia e vari aspetti del modo di fare giornalismo in Italia gli argomenti trattati.
Ora le parole di un uomo, prima che di un giornalista, che ha fatto del garantismo vero una ragione di vita, e che crede ancora sia possibile rimediare e rimettere il treno sui giusti binari, se solo lo si volesse.
A distanza di anni abbiamo avuto modo di constatare che le indagini svolte dai Carabinieri si sono poggiate in più di una circostanza sulle cronache apparse sui quotidiani; non a caso il colonnello Attilio Auricchio, responsabile dell'attività investigativa, nell'udienza del 16 marzo ha testualmente dichiarato: "Se abbiamo fatto riferimento a rigori ingiusti o gol in fuorigioco, lo abbiamo dedotto dalle cronache dei giornali". Cos'ha da dirci in merito? E’ una delle conseguenze deformi di un principio apparentemente corretto, ma nella realtà deviante: l’obbligatorietà dell’azione penale. La legge impone al magistrato di procedere ogni volta che gli giunge una notizia di reato, ma l’indicazione è così generica che, da una parte, ciascuno segue le inchieste che crede, e, dall’altra, si può anche andarsele a cercare, le inchieste.
Nella pratica, insomma, l’effetto s’è capovolto: non è più tutti uguali davanti alla legge, ma ciascun magistrato con eguale potere di scegliere.
Nell'estate del 2006 l'intero Paese fu informato che nel mondo del calcio l'ex dirigenza juventina intratteneva rapporti di abitualità con i designatori arbitrali. Il Pubblico Ministero, Giuseppe Narducci, fugando qualunque dubbio su eventuali altri contatti dichiarò: ”Piaccia o non piaccia agli imputati non ci sono mai telefonate tra Bergamo o Pairetto con il signor Moratti e altri tesserati". Oggi, e dopo le ultime intercettazioni rese pubbliche, scopriamo l'esatto contrario. Che opinione si è fatto? Anche questo è un altro frutto del progressivo imbarbarimento del nostro diritto. Per due ragioni. La prima: visto che le sentenze, quando arrivano, giungono con lustri di ritardo, la fonte di verità diventa l’indagine, nel corso della quale non solo l’imputato non ha alcuna garanzia, ma lo stesso magistrato, se non è prevenuto già di suo, è in balia delle informazioni che gli portano.
La seconda: anziché tacere, consapevoli della delicatezza di quel momento e degli interessi, individuali e sociali, che possono essere ingiustamente e permanentemente danneggiati, molti magistrati s’abbandonano ad un protagonismo ciarliero, inutilmente ripreso e condannato dalle più alte cariche dello Stato.
Questo in generale. Nello specifico, confesso di non conoscere quella dichiarazione, ma se voi la riportate correttamente ne deriverebbe una sorta di follia giudiziaria, tendente non ad affermare quel che esiste ma a stabilire quel che non esiste. Operazione impossibile in via logica, priva di qualsiasi ragionevole accertamento.
Gli inquirenti hanno più volte sostenuto che i sorteggi arbitrali erano truccati, pilotati dalla famosa "cupola" a seconda dei propri interessi. A seguito di una sentenza della Corte d'Appello del Tribunale di Roma (datata settembre 2007), abbiamo avuto modo di apprendere che le designazioni arbitrali, invece, venivano svolte alla piena luce del sole, con la presenza di giornalisti, designatori e soprattutto di un notaio, predisposto al controllo della regolarità delle stesse. A nessuno, però, è interessato ascoltare la testimonianza di un pubblico ufficiale. Dimenticanze o cos'altro? Nel corso di un’inchiesta, quindi poi di un processo, non esistono “dimenticanze”. Semmai omissioni. Ricordo che la legge impone al pubblico ministero di indagare anche a favore dell’accusato. Mentre durante il processo, naturalmente, saranno gli avvocati difensori a tutelare i suoi interessi.
La sua posizione sulla pubblicazione integrale delle intercettazioni telefoniche, rilevanti per le indagini o meno, è abbastanza chiara. Crede che ci sia la possibilità di porre un qualche freno a questo andazzo che alcuni definiscono una vera e propria barbarie? E se sì, come? Sì, lo credo, e non penso affatto che consista nella punizione dei giornalisti (che meriterebbero d’essere puniti, eccome, dato il tradizionale asservimento alle veline di procura).
Le intercettazioni, da cui può dipendere anche la nostra sicurezza, dovrebbero essere uno strumento d’indagine, mai una prova. Dovrebbe gestirle la polizia giudiziaria, non la magistratura. Non dovrebbero mai entrare nelle carte del processo, quindi mai, dico mai, diventare pubbliche.
E’ semplice: se dico al telefono di avere nascosto la refurtiva in un tale posto chi mi ascolta va e controlla, se trova quel che cerca ha la prova per arrestarmi e condannarmi, senza far cenno all’intercettazione, se non lo trova vuol dire che stavo straparlando, mi stavo vantando, o stavo prendendo in giro, che non sono reati. Quindi l’intercettazione si butta. Immaginate questo esempio nel caso di una bomba e traetene le dovute conseguenze.
Dalle parole del direttore generale della Figc Antonello Valentini, abbiamo appreso che la Federazione Italiana Giuoco Calcio non ha le intercettazioni di Calciopoli, né quelle di nuova generazione, né quelle vecchie; quelle, tanto per chiarirci, utilizzate per condannare la Juventus nel primo filone di Calciopoli. Lei trova similitudini con l'aspetto politico del Paese? Come ho appena sostenuto, le intercettazioni non dovrebbe averle mai nessuno, anche per evitare che ci sia la tentazione d’utilizzarle per danneggiare gli avversari, anziché per condannare i colpevoli. Cosa che, nella nostra vita politica, accade sovente. Rendendola incivile.
L'ex amministratore delegato della Juventus, Antonio Giraudo, è stato giudicato colpevole in primo grado di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva, nel procedimento del rito abbreviato scelto dalla difesa dell'ex dirigente juventino. Nella deposizione della sentenza abbiamo avuto modo di leggere questo passaggio: "...a più riprese i difensori hanno ritenuto di evidenziare i limiti di tali indagini e dei loro risultati... Tali critiche, pertinenti e in astratto ragionevoli, eludono, tuttavia, il problema principale di questo e di molti processi di caratteristiche analoghe, costituito dalla notevole difficoltà dell’accertamento di fatti che presentano peculiarità ostiche al lavoro di chi vuole comprenderli prima di giudicarli... D'altra parte occorre segnalare come questo processo... si caratterizza largamente per essere un processo indiziario..."
Dopo aver letto di "notevole difficoltà nell'accertamento dei fatti" e "questo procedimento si caratterizza per essere un processo indiziario", dobbiamo avere timore, vista la condanna a Giraudo, della giustizia in Italia? La legge dice che la sentenza di colpevolezza è pronunciata se quella è dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio. Se, come riportate, dei giudici hanno scritto quella roba, vorrà dire che il grado di giudizio successivo cancellerà la sentenza, per manifesta illogicità delle motivazioni.
In generale, anche qui, si deve segnalare il crescere, in Italia, di una letteratura prolissa e inconcludente, che tradisce il concetto stesso di “motivazione”.
La Costituzione dice che le sentenze devono essere motivate, nel senso che il giudice deve scrivere perché condanna o perché assolve. Invece leggiamo centinaia di pagine in cui si argomenta sul perché l’imputato e colpevole, pur in assenza di prove decisive, oppure di quanto lo sia anche nel caso dell’assoluzione. L’assurdo è che dalla sentenza ti puoi difendere, mentre dalle sue motivazioni no.
All'interno dell'aula 216 del Tribunale di Napoli, il presidente Teresa Casoria dichiarò un anno fa queste parole: "In questa sezione abbiamo anche processi più seri da portare avanti, nel senso che abbiamo pendenti casi con gente agli arresti…". Per questa considerazione fu presentata dalla Procura un’istanza di ricusazione, rigettata dalla settima sezione della Corte di Appello di Napoli, e il settimanale l'Espresso, a firma di Alessandro Gilioli, tracciò come pressappochista e inadatto il profilo della Casoria. Si può dedurre che a Napoli, come nel resto d'Italia, il "problema serio" debba rimanere Calciopoli? No, il fatto è che il giudice non deve esprimere mai alcun giudizio, prima della sentenza. Di nessun tipo. Ed è giusto.
Ma vale la pena ricordare che il principio in questo caso esposto (la precedenza ai processi con detenuti) è regolarmente fatto valere, ma nella fissazione del calendario. Mentre la procura di Torino lo ha addirittura codificato in una raccomandazione ai pm, cui è stato suggerito di lasciar perdere i fascicoli destinati a prescrizione. Come si vede, appunto, nella pratica è violato (qualche volta giustamente) il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
E' notizia recente che l'Italia continua, in seno alla libertà di stampa, a rimanere pessima rappresentante dell'Europa, classificandosi dietro a paesi come Sudafrica e Tonga.
Visto lo scempio dell'informazione in materia economica, politica, e sportiva, sembra che oggi, a decenni di distanza, la maggioranza dei Direttori di testate radio-televisive e della carta stampata, abbiano come Decalogo di riferimento quello dettato da tale Joseph Goebbels, Ministro della propaganda del Terzo Reich: "Calunnia, calunnia, alla fine qualcosa resterà!" Qual è il suo punto di vista a riguardo? In Italia non manca la libertà di stampa, manca la dignità di chi parla e scrive.
Davide Giacalone