“Quando il giorno è lungo e la notte, la notte è solo tua, quando sei sicuro che ne hai avuto abbastanza di questa vita. Resisti!”
Comincia così una famosa canzone dei R.E.M. e mi rimane sempre in testa quando penso alle fatiche che la vita mi porge. La canto ogni tanto, in macchina, nel traffico. Mi viene sempre a trovare quando penso a Gianluca Pessotto. Era il 27 Giugno 2006 quando Gianluca sentì il corpo andarsene via, “lo sentivo andare” , e quel corpo si lanciò dal tetto della sede di via Galileo Ferraris. Poi il buio. Il buio più totale. Era scesa la notte nella vita di Gianluca. Era scesa molto prima nel suo cuore, nella sua testa: un carattere semplice e mite, le gambe che non vanno più, la fatica della vita familiare, un futuro incerto e non ancora scritto, uno scandalo scoppiato da poco, organizzato per distruggere anche il passato. Quel passato che aveva scritto anche lui: 6 scudetti, 3 supercoppe italiane, 1 Champions League, 1 coppa uefa, 1 coppa intercontinentale, 1 coppa intertoto. Tutto ciò che un calciatore desidera fin da bambino. Dal 1995 al 2006. Undici anni di sacrificio, dedizione, intelligenza, pazienza, fatica, dolori e amicizia. Una sola parola usciva dalla sua bocca: “Noi”.
“Quando il tuo giorno è notte, solo (Resisti! Resisti!) Se ti senti come se stessi andando via (Resisti! Resisti!)”
Non è facile, però, resistere quando tutto ti crolla addosso e sei fragile. Quando, abituato da sempre ad ascoltare gli altri, non sei più capace di urlare aiuto! Pensi di farcela da solo. E le voci prendono il posto della tua coscienza. La realtà diventa inganno. Quel tetto diventa la rampa di lancio della disperazione. Fu uno shock per tutti. Pochi giorni prima era andato a trovare gli ex compagni convocati in nazionale, era deciso, pronto e convinto a ripartire. Li aveva convinti quasi tutti a continuare, a non arrendersi e a rimanere attaccati a quella maglia bianca e nera che tanto amava e che si voleva bruciare. Non giocava più, ma aveva trovato un posto nella dirigenza, per rimanere attaccato a quei colori che aveva difeso per tanti anni. Quei colori, però, non difesero lui. Alla notizia dell’incidente cadde un velo di dolore su tutti. Ricordo che ero davanti al televisore e assistetti in diretta l’annuncio che diedero i giornalisti in sala conferenze al Mondiale. Cannavaro, mentre rispondeva alle domande della stampa, rimase paralizzato. Se ne andò. Dissero che Gianluca era caduto. No, rosario alla mano, si era buttato. “Perché!?”, pensai, “Come è possibile tentare di uccidersi quando hai tutto: una famiglia, un lavoro bellissimo, tanti amici, tifosi che ti amano, la gloria?” Sì. E’ possibile.
“Tutti soffrono. Trova consolazione nei tuoi amici Tutti soffrono. Non rovesciare la tua mano. Oh no. Non rovesciare la tua mano Se senti di essere solo, no, no, no, non sei solo”
Circondato da amici, da una moglie bellissima, da due figlie meravigliose, da un passato glorioso, puoi sentirti solo comunque. E’ una solitudine dell’anima, del cuore. “Non ho ricordi del volo, anzi, di nessun momento di quella giornata, però il dolore che provavo prima, nell’anima, quello sì, lo ricordo e lo ricordavo alla perfezione. Un buio tremendo, senza speranza. La solitudine più profonda che si possa immaginare”. Subito, centinaia di juventini accorsero all’Ospedale; Ciro, Alex, Cannavaro e Zambrotta partirono dalla Germania e cercarono di rimanergli il più vicini possibile. I cuori e le preghiere di migliaia di persone erano tutti rivolti a Torino. Tutti gli amici si strinsero a Gianluca. Aveva dato tanto, senza chiedere mai per sé, nemmeno a quegli amici, compagni di mille battaglie. Ormai era tirato, dimagrito. Aveva dato tutto e non ne aveva più.
Paolo Montero partì dall’Uruguay appena saputa la notizia, non si sentivano da tempo, e rimase accanto a lui giorni, notti, a vegliare e a pregare. “Se c’è una amicizia, la chiamata è secondaria…ti deve unire un’altra cosa, che è più importante” , disse. E’ commovente. Ecco che tra tutte le migliaia di persone presenti, spicca una amicizia. Una amicizia “diversa” dal concetto che mi portavo dietro. Colma di qualcosa in più. Tra tutte. Rimasero colpiti tutti e io per primo: Paolo Montero, famoso per essere il più duro, rude e “cattivo” giocatore della juventus, legato a triplice mandata con Gianluca, il più tranquillo giocatore che mai abbia calcato i campi di gioco. Il diavolo e l’Acqua Santa. Eppure è così. Rimane nove giorni dietro ad un vetro della sala rianimazioni, in silenzio, ad aspettare. Ad aspettare che il suo amico uscisse dal coma farmacologico. Mentre l’Italia diventa campione del mondo per la quarta volta della storia, Gianluca si sveglia. Non potendo parlare, guarda i genitori, guarda Paolo e scrive su un foglietto una preghiera.
L’aiuto che più ci serve nella vita è avere accanto a sé una grande amicizia e riconoscere quel “qualcos’altro” che la lega. Riconoscere una presenza che ti è vicina e ti viene incontro nel presente. Solo questo permette al cuore dell’uomo di sconfiggere le proprie paure e di affrontare l’ignoto che spesso ti si apre sotto i piedi. Come è grande e bella questa vita che, con i suoi intrecci, permette ad un poveretto come me di avere di fronte esempi così concreti.
Come si torna da quelle terre, e perché? “Per benedire ogni giorno in più che respiri. La vita è un dono unico: per me, è stato doppio. (…) Il vero nemico è la solitudine, è come quando percorri i trenta metri verso il dischetto del rigore, solo che se sbagli il tiro muori”. (…) Come credi di esserti salvato? “Forse una mano dall’alto mi ha preso per i pochi capelli che avevo”. Ci pensi spesso? “No, ci penso sempre”.
Grazie. Grazie, Gianluca, di aver vissuto e di vivere la tua, la nostra vita, con questa intensità e riconoscenza.
“A Natale sono stato in Uruguay, dal mio amico Paolo Montero. Dopo l’incidente, era rimasto a vegliarmi accanto al letto per due settimane. Quando sono stato da lui e l’ho abbracciato, è stato come se avessi abbracciato tutti coloro che mi erano stati vicino”.
di Marcheselli Giacomo (VENTINOVE) |