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Articolo di G. FIORITO del 18/07/2011 09:57:15
Tutta colpa di calciopoli.5° La Juve contro tutti

 

La Vecchia Signora ripartì dopo il centenario con lo stesso stile vincente e si aggiudicò il campionato Italiano di calcio 1997-‘98 e la Supercoppa Italiana. Il 20 maggio 1998 fu di nuovo finalista di Champions League, per il terzo anno consecutivo. Le regole della competizione volgevano verso la creazione di un campionato europeo, aperto a tutte le Federazioni, le migliori otto delle quali avrebbero allargato la partecipazione ad una seconda squadra. In tutto 24 squadre dopo due turni preliminari. Quindi da sei raggruppamenti autunnali si sarebbero qualificate le prime e le migliori due seconde, che sarebbero andate a giocarsi in primavera le ultime fasi secondo la consuetudine dell’eliminazione diretta. Nel Girone B la Juventus si classificò seconda (12) dietro il Manchester United (15) e davanti al Feyenoord (9) e al Košice (0). Ai quarti si impose sulla Dinamo Kiev (1-1 e 4-1), in semifinale sul Monaco (4-1 e 2-3). Fu sconfitta in finale dal Real Madrid al suo settimo titolo, per 1 a 0, all’Amsterdam Arena, beffata da un goal in fuorigioco.
Formazione Juventus: Angelo Peruzzi; Moreno Torricelli; Paolo Montero; Mark Iuliano; Gianluca Pessotto (71' Daniel Fonseca); Angelo Di Livio (46' Alessio Tacchinardi); Didier Deschamps (78' Antonio Conte); Edgar Davids; Alessandro Del Piero; Zinedine Zidane; Filippo Inzaghi. Allenatore Marcello Lippi.
Formazione Real Madrid: Bodo Illgner; Christian Panucci; Fernando Hierro; Manuel Sanchís Hontiyuelo; Roberto Carlos; Christian Karembeu; Clarence Seedorf; Fernando Redondo; Raúl González (90' José Amavisca); Predrag Mijatović (89' Davor Šuker); Fernando Morientes (82' Jaime Sanchez). Allenatore Jupp Heynckes. Arbitro: Helmut Krug (Germania). Reti: 67' Mijatović.
La stagione 1998-‘99 fu di quelle amare, con un settimo posto in campionato che non consentì neppure l’accesso in Europa, sfuggito nello spareggio con l’Udinese. Carlo Ancelotti subentrò a Marcello Lippi, accolto purtroppo malamente da una parte della tifoseria bianconera per i suoi trascorsi romanisti. Non andò meglio all’Inter, che perse il suo spareggio per la UEFA contro il Bologna e collezionò sulla sua panchina ben quattro allenatori in un anno. Concluse il campionato in ottava posizione, con 46 punti, dietro la Juventus settima con 54.
La cosa peggiore accadde in novembre, quando Del Piero si infortunò al ginocchio e la sua carriera di calciatore fu messa a dura prova dalla rottura del legamento crociato e dalle aspre critiche che in molti gli hanno riservato per tanto tempo. Provai un dolore e uno sconforto come poche volte mi è accaduto. Il destino gli aveva chiesto il conto per tutte le cose belle che la vita gli aveva riservato nello spazio breve della sua giovane età. Poco tempo dopo si prese anche suo padre. Alessandro ha saputo reagire e ritrovare se stesso. Riuscendo ad essere un punto fermo nella Juventus degli anni più controversi e difficili.
Quello del 1999-'2000 fu il torneo dello scudetto affogato a Perugia, per opera di Collina, la celebratissima giacchetta nera costretta al ritiro dall’attività per un evidente conflitto di interessi, non avendo voluto rinunciare allo stesso sponsor del Milan, nonché futuro designatore arbitrale.
Le sette sorelle intraviste sui nastri di partenza si erano andate via via annullando e dopo la Roma e il Milan parve rimanere solo la Lazio a contendere il tricolore alla Juventus, che intanto si era portata a +9 punti in classifica. I giochi sembravano fatti, ma la decisione di giocare in estate la Coppa Intertoto (conquistata da Juventus, Montpellier e West Ham, che così acquisirono il diritto a giocare la Coppa UEFA), destinata alle squadre che non avevano ottenuto una qualificazione europea, soppressa in seguito con comunicato dell’UEFA del 30 novembre 2007 in seguito ai nuovi regolamenti, tagliò le gambe ai giocatori di Ancelotti e li fece crollare contro Milan e Lazio. La partita decisiva, condotta a termine forzatamente nell’acquitrino perugino, dove solo chi avesse voluto avrebbe visto rimbalzare il pallone, si rivelò fatale per i colori bianconeri. Era l’anno del giubileo e lo scudetto andò comunque a Roma, seppure sulla sponda biancoceleste.
Polemiche tante, attraverso i media, che non tanto velatamente insinuavano che la Triade si adoperava per procurare risultati positivi alla squadra bianconera. Un attacco costante e becero portato avanti da trasmissioni televisive, soprattutto “Il processo del lunedì” di Aldo Biscardi e giornali, apparentemente per conquistare telespettatori e lettori. Un’abitudine a esasperare i fatti, a spettacolarizzare le situazioni e le discussioni durata anni e mirata scientificamente ad attaccare la Juventus fuori dai campi di gioco, avendo dimostrato i fatti che sul rettangolo verde, il luogo eletto per misurarsi sportivamente e lealmente, era per le altre squadre molto difficile sconfiggerla. Un assedio che c’era sempre stato in fondo, ma che dal famoso rigore negato a Ronaldo non aveva più avuto tregua. Il clima anti-Juve toccò l’apice alla penultima di campionato, il 7 maggio 2000, quando si giocò Juventus Parma. Al 60’ Del Piero era ritornato al goal su azione dopo diciotto mesi, incornando di testa su un cross di Pessotto. All’89’ Cannavaro aveva realizzato su corner la rete del pareggio, non convalidata perché De Santis aveva fischiato un fallo di confusione in attacco. Episodio che lo consacrerà complice ideale della cupola. Sprecato il bellissimo tiro di Davids, che sul finale si stampava all’incrocio dei pali e il tentativo di Zidane di mettere la palla dentro sul rimbalzo, al 90’. Si scatenarono polemiche feroci, che ebbero l’epilogo il 14 maggio 2000 a Perugia. Quando, campo e spogliatoi allagati, la partita più lunga del campionato fu fatta giocare da Collina, che uscì fuori per quattro volte alla ricerca di un angolo asciutto dove far rimbalzare il pallone. A detta dei fomentatori del sentimento popolare, il diluvio era biblicamente intervenuto a lavare le colpe bianconere.
Con il senno di poi si potrebbe anche dire che “calciopoli” era iniziata.
Il campionato di calcio 2000-‘01 fu vinto dalla Roma di Capello (75) davanti alla Juventus (72); l’inter fu quinta in classifica (51). Molti attribuiscono gran parte della responsabilità a Van Der Sar, il portiere che ha trovato il suo riscatto nel Manchester United, laureatosi Campione d’Europa nel 2008. Può essere molto migliorato nelle sue prestazioni, ma di sicuro non è il disastro che certa critica tende a propinarci. Io porrei piuttosto l’accento sullo scontro diretto del 6 maggio 2001, nel corso del quale la Roma si trovò a rimontare e pareggiare oltre il tempo regolamentare una partita che la Juventus stava conducendo per 2 a 0. L’autore della prima rete giallorossa e fautore della seconda fu Hidetoshi Nakata, che nemmeno avrebbe dovuto giocare, poiché all’inizio del campionato le regole imponevano alle squadre iscritte di non poter disporre di un numero di extracomunitari superiore a tre. Due giorni prima di questa partita queste regole vennero cambiate.
L’Inter di Lippi, già eliminata in Champions dagli sconosciuti svedesi dell’Helsingborg, rimediò in Coppa Italia e in campionato due sconfitte tennistiche (6 a 1) dal Parma e dal Milan e fu estromessa dalla UEFA ad opera degli altrettanto ignoti spagnoli dell’Alavès.
Il 15 marzo del 2001, tra le ore 16:00 e le ore 16:30, accadde qualcosa di molto speciale. So bene che quanto affermo può suonare inverosimile e che l’uscita dal tunnel della depressione non si può circoscrivere in un tempo così ridotto, ma io so quello che dico e del resto non ho mai esitato ad ascrivere la questione alla voce miracoli.
Era una bella giornata d’estate, sul finire dell’agosto del 2000 ed era festa, quando qualcuno mi disse che Massimo aveva avuto un incidente stradale a causa di un’emorragia cerebrale. Da tanti anni il male di vivere spegneva il mio entusiasmo per le cose del mondo. Un dolore costante nel petto e la tachicardia non mi abbandonavano mai. Avrei dovuto essere io quella finita. Invece era lui che giaceva paralizzato, confinato in una casa di riposo. Andai a trovarlo.
La mia vecchia utilitaria arrancava tra i giardini di limoni, col mio sguardo smarrito in un cielo troppo azzurro, al confine con il blu cobalto del mare. Entrai in una grande casa tutta bianca. C’era un pianoforte. Era tutto troppo pulito. Una vecchia urlava sulla soglia di una porta e un’infermiera mi sgridò quando lo vidi e cercai di abbracciarlo. Massimo non mi riconosceva. Con la mano compiva un gesto familiare con il quale scostava il cappellino dalla fronte, scoprendo i corti capelli e il sorriso intatto. Mi sembrava così giovane. “Ho fatto una pazzia. Credevo di essere capace di aiutarlo”. Pensai, mentre mi ripeteva ancora una volta che stava bene e che non me ne dovevo andare.
Non sapevo più che cosa dire, quando su una mensola scorsi una televisione e gli domandai se non guardasse le partite. Una signora lì accanto gli intimò di dirmi per quale squadra tifasse. Rispose che era juventino e lo sguardo ritornò presente, un raggio fotonico accese i suoi occhi. Mi chiese se la Juventus avesse vinto. Sì, naturalmente. Chi aveva segnato? Tudor. E Zidane? Non aveva segnato Zidane?
Juventus è una formula magica, apre porte nascoste su sentieri sconosciuti a noi stessi, su percorsi introvabili a chi non ha sogni e a chi a volte ha bisogno di tornare sui suoi passi.
Quello che ancora non posso credere è che si ricordava di Zidane e non si ricordava di me. Che la mia vita si era incrociata con la sua per un frammento di percorso così effimero da non avere lasciato traccia dentro di lui. Mentre in me aveva segnato l’esperienza del primo amore in modo così profondo che mentre uscivo da quell’antro inverosimile, nel regno dei “giardini che nessuno sa”, ancora non sapevo che ero guarita.
Massimo era l’unico che avessi mai amato. Vederlo così sofferente e indifeso riaccese il sentimento profondo che avevo provato per lui e che gelosamente avevo custodito dentro di me per tanti anni. L’ho amato disperatamente e inutilmente ancora per sei anni, malgrado sapessi che né lui né io eravamo ormai i ragazzi di un tempo. Convinta che sarebbe rimasto l’unico vero amore della mia vita. Tra la primavera e l’estate del 2007 mi resi conto che era solo un caro ricordo.
Il centesimo Campionato Italiano di Calcio di serie A fu vinto dalla Juventus. Sulla panchina bianconera era ritornato Marcello Lippi e si erano registrate le cessioni di Filippo Inzaghi e Zinedine Zidane. In arrivo Gigi Buffon, Lilian Thuram e Pavel Nedved. Questo mi faceva impazzire della Triade, che riusciva a dare l’impressione di fare sempre la cosa giusta. I giocatori che mi piacevano, Bettega, Giraudo e Moggi li portavano alla Juventus. Quei tre erano capaci di fare avverare i miei sogni.
Lo scudetto del 2001-'02, il 26° per la Signora, è passato alla storia come il novello 5 Maggio. Per me fu lo scudetto della marmellata di pere. Il padre di Marcello Torrisi, campione siciliano di motociclismo scomparso prematuramente qualche estate fa, mio ottimo amico, mi aveva regalato una cassetta di pere e mele selezionate. Le pere maturano in fretta e decisi di cimentarmi in una marmellata. Mentre mescolavo avvenne l’incredibile. Come nel 1967, quando tra il 25 maggio e il 6 giugno si concluse in tre partite il ciclo della Grande Inter, che perse prima con il Celtic di Glasgow a Lisbona la finale di Coppa dei Campioni, poi contro il Padova la semifinale di Coppa Italia e il 28 maggio venne sorpassata di un punto nella vittoria dello scudetto, perdendo per 1 a 0 a Mantova, dopo aver condotto in testa tutto il campionato, proprio dalla Juventus.
Il 5 maggio 2002 la situazione di classifica vedeva l’Inter con 69 punti, staccata di un punto dalla Juventus e di due dalla Roma. Lazio Inter si giocò a Roma e la tifoseria biancoceleste era tutta dalla parte dei nerazzurri, essendo tradizionalmente invisa ai bianconeri e ai giallorossi. L’Inter fu capace di rovinare tutto e di essere la sola causa del suo stesso male. Riuscì nell’impresa di farsi pareggiare per due volte le reti di Vieri e Di Biagio e poi di cedere definitivamente con un clamoroso 4 a 2, grazie a una doppietta di Poborsky, già in partenza dalla Lazio, e alle reti dell’ex Simeone e di Simone Inzaghi, finendo per “regalare” all’ultima giornata lo scudetto alla Juventus, che in 11 minuti aveva regolato l’Udinese fuori casa con le reti di Trezeguet e Del Piero. Il 23 novembre 2006 Cragnotti ha dichiarato di aver ricevuto il giorno antecedente la partita una telefonata di Massimo Moratti, che lo sollecitava ad un incontro dopo la partita per definire l’acquisto di Nesta, nonostante ne avesse gonfiato il prezzo adducendo come scusa una trattativa già avviata con la Juventus. Quell’incontro non ci fu mai. Né a nessuno degli organi competenti della FIGC è mai venuta la curiosità di saperne di più.
Ricordo che preparai un caffè e invitai Salvo, che abita al primo piano sotto casa mia ed è interista, a berlo con me. Sportivamente accettò. Erano tempi in cui si riusciva ancora a trovare un interista sportivo.
Il 3 dicembre 2001 la Juventus fu quotata sul listino della borsa italiana.
Il nuovo millennio aveva portato una bella novità: la casa dove vivevamo adesso, la quarta da quando c’eravamo sposati, non era in affitto. Dietro il grande pino secolare che troneggiava tra le piante del giardino in faccia all’Etna, si apriva il balcone dell’appartamento che eravamo finalmente riusciti ad acquistare, anche se restavano ancora da pagare dieci anni di mutuo. Ero molto felice di essere riuscita a far diventare realtà quella che da tempo era la mia speranza. Ho sempre avuto l’impressione che mio marito avesse come unico interesse e desiderio di ingrandire l’attività imprenditoriale, trascurando e disinteressandosi della famiglia e della casa. Sebbene io avessi sempre lavorato nel laboratorio di grafica e stampe digitali, non mi ha mai messo al corrente di quanti soldi fruttasse, né di come reinvestisse i guadagni. Cioè, lo ha fatto finché non si è convinto che i nostri interessi erano completamente divergenti. Accorgendosi della mia prudenza che riteneva eccessiva, ad un certo punto non ne ha più tenuto conto e ha iniziato a fare esclusivamente di testa sua. E qualcosa non ha funzionato. L’entrata in vigore dell’euro e la crisi economica internazionale seguita al crollo delle Twin Towers, ci hanno fatto perdere i contratti di lavoro che garantivano guadagni mensili sicuri, con i quali coprire le spese per gli investimenti. Abbiamo sfiorato il fallimento e mi ha chiesto di aiutarlo a rimettere in piedi l’attività.
Ci sarebbe stato da rimettere in piedi anche il matrimonio, ma questo a lui risultava difficile capirlo. Se solo mi avesse dato retta ogni tanto. Si fosse dimostrato affettuoso e interessato con il bambino, lo avesse accompagnato una sola volta in piscina senza farsi pregare, lo avesse aiutato a fare i compiti. Se solo per un anno avessimo fatto delle ferie vere e si fosse dedicato a noi dimenticando i computer e gli amici che avevano bisogno di riavviare un computer. Se non mi avesse piantato a casa con i parenti in pizzeria il giorno del mio trentaseiesimo compleanno, per fermarsi a discutere da un amico. Se solo non mi avesse mai detto che le uniche cose che sono in grado di fare sono suonare il piano, leggere e scrivere.
Adesso il negozio non c’è più. Mio marito ha un posto importante in un’azienda che gli permette di esprimere al meglio le sue competenze. Mio figlio è partito in Galles, per studiare all’università di Swansea.
Io sento che non gli devo più niente per quello che ha fatto per me. Mi ha portato fuori da quell’inferno che era la mia famiglia. Gli ho dato trent’anni della mia vita e in Italia sono un ergastolo. Una pena che forse nessuno è riuscito ancora a scontare.
 
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