La nostalgia di un calcio e di uomini più veri in questo baule della fantasia e della memoria riaperto da Andrea Pelliccia con la semplicità e la maestria di una scrittura senza fronzoli letterari, diretta al cuore.
Il calcio in Italia da sempre ha colmato lacune di ogni genere: affettive, politiche, sociali, psicologiche, religiose. Negli anni 80 si è raggiunto il picco in questo senso. In un’atmosfera velatamente malinconica persino un ingegnere chimico può svestire i panni del materialista nel riaffacciarsi alla sostanza delle cose, rinunciando alla catena del suo rosario di formule e narrando, così nuda e fragile, avvolta in una nebbiolina sottile d’oblio, la poesia della vita.
Ricordi personali e la memoria di tragedie, storie immaginarie, in un valzer ispirato di personaggi veri o presunti, da non danzarsi nel salone delle feste di un principato, ma al centro umile del cuore del lettore. Leggerezza in volteggi di anime incantate dal calcio, come riscatto personale dalla vita stessa, come prigionieri di un sogno promiscuo alla folla, come conseguenza ultima del risveglio alla realtà e addirittura come un passaggio offerto a sorella morte. Più di 6 personaggi in cerca di autore: emigranti in Belgio, un campioncino in erba, quella prima volta allo stadio S. Paolo di Napoli, il mondiale di Spagna di Pablito Rossi e Sandro Pertini, la strage infame dell’Heysel a Bruxelles, una schedina miliardaria, “ho visto Maradona” e Roberto Baggio.
Il garbo della penna di Andrea Pelliccia intesse una struttura finestrata di storie che s’incrociano e si allontanano, ma poi si riuniscono nell’abbraccio del messaggio finale che la vita è fatta di una strada sola, a volte buia, a volte illuminata a giorno dalla luce riflessa di altri, e che siamo tutti quanti viaggiatori in cammino verso la meta più impervia al genere umano, noi stessi.
E’ veramente magico per qualche ora tornare ragazzi assieme a questo libro, volando con la mente altrove a pretesto, rimembrando il ferro da stiro che piegava le grinze dispettose del panno verde del subbuteo, l’odore della figurine Panini, il rock che ci esplodeva dentro più dei brufoli dell’acne e degli ormoni, il primo bacio, i giorni di scuola, la prima volta in uno stadio vero, il fango e le sfide interminabili su quei campetti di periferia.
Vittorie e sconfitte. Fortuna e malasorte. La vita e la morte. Mescolate bene e servitevi da soli l’aperitivo che precede il ritorno alle faccende noiose del mondo. Quel retro-gusto un po’ amaro è in quell’emozione privata degli esseri umani a noi più cari passati già oltre e per tutto questo tempo che è già trascorso da quando c’era Paolo Valenti.
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