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          L'ANGOLO DEL TIFOSO
Articolo di Stefano Bianchi del 19/02/2014 17:39:53
Fabio Capello e la nostra storia
Il Sig. Capello, si deve essere già annoiato di godersi le epiche sfide tra Rubin, Lokomotiv e Krasnodar, e per tenere occupato il suo cervello, non ha niente di meglio da fare che occuparsi degli affari altrui. Quando, oltretutto, “questi altrui” non hanno di lui un buon ricordo. Comunque sia, questo esteta delle pesetas, delle sterline e dei rubli, ha avuto modo di notare che la Juve è sì capolista, ma in un torneo poco competitivo, ed ha per allenatore un tipo incazzoso che striglia la propria squadra dopo la magra mostrata con l’Hellas al Bentegodi. Bene ha fatto Antonio Conte a rispondergli per le rime: mi piaceva con la maglia addosso, mi piaceva come capitano (il “nostro” capitano), mi piace come allenatore, mi piace il suo non aver peli sulla lingua nel difendere i propri giocatori, il proprio lavoro e la nostra squadra. Io che ho sessant’anni, la memoria lunga, l’aiuto di Wikipedia ed anche un tantino di dente avvelenato, ci sarei andato anche più pesante. E vi spiego il perché.

La carriera bianconera del Sig. Capello pedatore inizia con la rifondazione d’inizio anni ’70, targata Boniperti-Allodi: in una Juve profondamente rinnovata, in sei anni contribuisce alla conquista di tre scudetti (due con Vycpalek e uno con Parola in panchina). Geometra più che condottiero, regista classico col vizio del gol ma che non disdegnava il tackle, non era il massimo della continuità e aveva la tendenza a sentirsi un gradino sopra i compagni, cosa che determinava frequenti scambi di opinione con uno senza peli sulla lingua, Beppe Furino. Per lui non è mai scoppiato quell’amore sviscerato dei tifosi, che stravedevano invece per il ricordato Furino, Haller, Causio, Bettega, Anastasi e Zoff.

Il Sig. Capello si è poi affermato come allenatore, e da titolare della panchina della Roma ebbe a fare varie dichiarazioni che indicavano in lui scarso senso della gratitudine e nessuna capacità di previsione: tra l’altro affermò che “uno degli obiettivi da combattere per la pulizia del calcio era la Juventus” e che “non avrebbe mai allenato la Juve per scelta di vita” (7 febbraio 2004). Tranne poi, chiamato dai denari di Umberto Agnelli, precipitarsi a Torino, dove ebbe a disposizione una delle squadre più forti di tutti i tempi e, infatti, riuscì a conquistare gli scudetti del 2004/05 e 2005/06. A scapito del fior di campioni che aveva in rosa, sbaragliò il campo italiano, ma con un gioco micragnoso e per nulla piacevole a vedersi, oltretutto umiliando Ale Del Piero, forse il talento più fulgido della Juve di tutti i tempi, come nessun altro si sarebbe permesso di fare. Per di più (ma lui pare averlo dimenticato) con quella specie d’invincibile armata che Moggi e Giraudo gli avevano messo a disposizione, riuscì a farsi eliminare due volte consecutive in Champions, sempre ai quarti, prima dal Liverpool, poi dall’Arsenal. Avendo a disposizione, giova ricordarlo, quello squadrone che a ranghi misti andò a giocarsi quasi da solo la finale dei Mondiali del 2006. Questo specialista dai proclami assoluti e sempre disattesi, non si smentì nemmeno alla fine del rapporto con la Juventus, con l’uomo di Pieris fuggiasco ai primi sentori di Farsolpoli, naturalmente dopo aver dichiarato “Il mio futuro è sicuramente nella Juventus” (dichiarazioni del dopo partita Bari-Juventus, 14 maggio 2006).

Non ci interessa più sapere perché quest’uomo si rimangi frequentemente la parola e perché cambi bandiera (sponsor) con i ritmi forsennati propri di un Bobo Vieri o di uno Zlatan Ibrahimovic: sarà per il carattere di mrd? Sarà per il suo essere un pesetero? Sarà per entrambi? Chissenefrega: non sentivamo la sua mancanza, mai l’avessimo sentita. Gli chiediamo solo rispetto per la nostra storia, storia di cui non merita di aver fatto parte. Bene ha fatto Conte a rimandare al mittente, con gli interessi, le critiche di questo guru dello stipendio e del risultato svincolato dal bel gioco. Bene ha fatto, Antonio, a ricordargli che sono altri gli allenatori (e gli Uomini) rimasti nel cuore di noi bianconeri, su tutti Trapattoni e Lippi, ventuno anni di Juventus in due, una quantità industriale di titoli italiani e internazionali conquistati, signorilità da vendere, prima, durante e dopo i periodi in bianconero. Non certo come lui, che dopo aver giurato fedeltà alla squadra, quindici secondi dopo il triplice fischio di Bari-Juventus possedeva già casa a Madrid, falso come la fotocopia di una banconota del Monopoli.

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