ROBERTO BECCANTINI
Nell’ambito del processo Gea, non credo «all’associazione a delinquere finalizzata all’illecita concorrenza con minacce e violenza» che Luciano Moggi avrebbe organizzato per schiavizzare il calcio italiano. O mi sono perso qualche passaggio o gli undici anni chiesti per la famiglia Moggi (sei al padre, cinque al figlio Alessandro) non stanno in piedi. Lo scrivo prima del verdetto di primo grado, atteso a Roma per giovedì 8 gennaio 2009. Lo scrivo perché le munizioni e le raffiche del pm Luca Palamara, presidente ad arringhe alterne dell’Associazione nazionale magistrati, hanno trasformato Moggi in un personaggio che, se davvero esistesse, e se davvero avesse fatto tutto quello che gli è stato attribuito, andrebbe deportato in Siberia. E noi giornalisti con lui, per omesso controllo. Molti si ostinano a parlare di Moggiopoli. Fa comodo. Ripeto: o mi sono distratto o dipingere la Gea come l’ultima Spectre non sta né in cielo né in terra. Certo, in assenza di norme che, all’epoca regolassero il traffico, le parentele e gli ingorghi fra procuratori, i Moggi l’hanno usata e ne hanno abusato, e proprio per questo avrebbe dovuto occuparsene la giustizia sportiva che, viceversa, la sfiorò senza trovarvi nulla di torbido. Il problema è etico, non penale. E non riguarda soltanto i burattinai, tocca anche i burattini. Tanto per rendere l’idea, alle Fiere sponsorizzate dalla Gea andavano i presidenti dell’Anti-trust (Catricalà) e fior di opinionisti: il tutto, sotto l’egida del Coni, il cui presidente, Petrucci, appena poteva volava da Roma a Milano, della Federazione e della Lega calcio. Nel corso dell’ultimo derby fra Everton e Liverpool, trasmesso in diretta da Sky, Massimo Marianella ricordava come Rafa Benitez, allenatore dei Reds, avesse deciso di privarsi in estate di Jermaine Pennant, e dal momento che costui non voleva saperne di togliere il disturbo, lo avesse «minacciato»: se resti, ti sbatto in panchina. Una roba così. Minacciare, minacciato. Ecco il punto. Dottor Palamara, cosa facciamo di Benitez? Nessun dubbio che la Gea avesse una posizione dominante, e che il capofamiglia spendesse a cuor leggero il nome Juventus. Non solo: le amnesie di Antonio Giraudo e Fabio Capello fanno sghignazzare, così come il «pezzo di m.» che Lucianone ha rivolto a Franco Baldini, vedi alla voce Oriali & passaporto di Recoba, è stato giustamente censurato. Ciò premesso, per arrivare a sei anni ci vuole molto di più. Infinitamente di più. Nel caso specifico, ci sono stati testi dell’accusa che hanno «giocato» in difesa e per la difesa. E un giocatore, Marco Cassetti, oggi alla Roma, ha confessato che l’Inter gli avrebbe garantito un signor contratto qualora si fosse smarcato dal suo agente, casualmente Alessandro Moggi. Si deve parlare di minacce tout court oppure, trattandosi della castissima Inter, conviene usare le virgolette («minacce»)?
La Gea è saltata per aria ed è stata soppiantata da nuovi consorzi, come insegna la legge della giungla. Moggi è tutt’altro che un santo o un martire, ma neppure quel mostro spietato che la pubblica accusa ha tratteggiato. In una guerra per bande, come è da anni il calcio mercato, sono molti i mezzi che giustificano il fine, a maggior ragione se corredati da soffiate ai giornalisti amici. Nessuno meglio di noi, quando viene titillato, sa creare l’atmosfera. Aver costruito una Juventus fortissima è un’aggravante e non un’attenuante, soprattutto in relazione al modo in cui l’ex direttore generale ha gestito i rapporti con i designatori e gli arbitri, fermo restando che San Dulli, con le sue sentenze a capocchia, ha scavato un fosso troppo profondo tra la Juventus e le altre, tra Moggi e gli altri. Pesa Arbitropoli, non Geapoli, le cui sanzioni - per le testimonianze rese e le prove emerse - avrebbero dovuto essere esclusivamente sportive.
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