29/12/2006 (7:18) - INTERVISTA
Montali: "Juve, fascino intatto.
Cassano? Lo prenderei"
Gian Paolo Montali è managing director della Juventus
DOSSIER Qui Juve
«Bisogna avere il coraggio
di pensare in grande
guardando in piccolo»
MASSIMILIANO NEROZZI
TORINO
«Bisogna avere il coraggio di pensare in grande, ma di guardare in piccolo. Solo così si possono vincere le grandi sfide. Quella della Juve passa dal piano industriale, da come la proprietà vorrà investire e dal progetto del nuovo stadio: come un puzzle. Ma questo club dovrà diventare un modello». Serve quasi un voto del consiglio di sicurezza dell’Onu per far parlare di calcio, a lungo, Gian Paolo Montali, che si conferma entusiasta per l’avventura nel cda bianconero, ma che pure vuol continuare a inseguire vittorie con l’uniforme di ct della nazionale di pallavolo.
Juve fra le prime sul valico di fine anno: se lo aspettava?
«Ero convinto che avrebbe fatto bene una volta che tutte le energie fossero state occupate sul campo da calcio. Una volta deciso di restare nella giustizia sportiva, è partito il viaggio: quello è stato il momento fondamentale».
Piombato nel mondo sconosciuto della B, Deschamps ha pilotato bene. Sorpreso?
«Un po’ sì, pensavo che all’inizio potesse avere qualche difficoltà in più. Va poi detto che l’hanno aiutato il fatto di avere un’organico di primo livello e un’organizzazione impeccabile: pensavo di essere uno esigente, ma quando ho visto le regole della gestione della prima squadra, le ho trovate ottime. Di Deschamps, comunque, mi piace il metodo rigoroso, e il senso di appartenenza».
Per tutti, siete già in A: è tempo di pensare al futuro?
«Prima, in A, vorrei andarci. Questo deve rimanere l’obiettivo. E so bene che in serie B tutti continueranno a non regalarti nulla. Allora, meglio non perdere la tensione: io giocatori devono continuare a pedalare».
Le squadre, però, si iniziano a costruire di questi tempi.
«Mi riferivo ai giocatori, la società lavorerà su altri canali».
Arrivati in A, la missione è essere subito competitivi per lo scudetto.
«Per riuscirci bisogna aver il coraggio di pensare in grande, ma guardare in piccolo. Cioé è giusto che la società si ponga grandi sfide, ma poi guai a dimenticarsi la quotidianità, il day by day, i particolari che devi curare tutti i giorni. In campo e fuori».
Durante un tie break disse: «Un punto alla volta, come le formichine». Non serve tempo per ricostruire una grande squadra?
«Essere la Juve aiuta, anche se molto dipenderà dal piano industriale, da come la proprietà vorrà investire, dal nuovo stadio».
Se n’è andata la Tamoil. Il marchio Juve luccica anche in B?
«Sì e le faccio un esempio. Quando andavo in giro, mi chiedevano sempre le maglie della nazionale, adesso mi chiedono, tre volte tanto, quelle della Juve. Altro esempio. Qualche giorno fa un grosso sponsor mi ha chiamato per organizzare un avvenimento di beneficienza con la squadra e mi ha mostrato uno studio: nel rapporto tifosi-famiglie, la Juve è ancora, di gran lunga, la squadra più amata».
Simpatici e vincenti: binomio possibile?
«I vincenti non sono mai simpaticissimi. Però ci sono quelli che vincono sacrificando sull’altare qualsiasi cosa, altri che lo fanno mostrandosi persone vere. Poi c’è chi vince per soddisfare il proprio ego, chi per condividere la vittoria: e io non toglierei mai il viaggio e i compagni con cui lo fai».
Siamo al solito caos arbitrale.
«Per decisioni ho perso partite e altre ne ho vinte, ma vengo da un altro mondo, dove nessuno pensa che l’arbitro sia depositario della vittoria e della sconfitta. É molto diseducativo».
Collina consulente: avrebbe preferito designatore?
«Chi non vorrebbe il massimo dell’eccellenza? Ma il problema è cambiare la mentalità: l’arbitro commette un errore in una gara? I giocatori ne fanno cento».
Il Pallone d’oro l’avrebbe dato a Buffon?
«Ne avrei dati tre. Perché è uno che si diverte a giocare e si vede, è stato fantastico nella finale mondiale, e perché è rimasto alla Juve».
Un campione che vorrebbe alla Juve?
«Mi occupo di giocatori di pallavolo».
È pure un gestore di risorse umane: cosa direbbe per convincere i big a rimanere?
«La prima cosa è ascoltare le persone, poi parlare. Bisogna trovare la giusta chiave motivazionale, far sentire ognuno parte di un progetto».
Uno come Cassano, lo prenderebbe?
«Conta il contesto nel quale uno è calato, e a me, i giocatori di talento, piacciono. É possibile insegnare a un tacchino ad arrampicarsi su albero, ma preferirei assumere uno scoiattolo». |